Incomincio da qui per dire di come sia più difficile e meno attraente per il grande pubblico la storia di un bambino ucciso dalla famiglia – per ora generalizzando volutamente – rispetto a quella di uno che perde la vita insieme alla madre. Ho il sospetto che alla nostra società manchino le parole per occuparsi dei bambini in quanto persone. Prima delle parole manca il reale interesse. Prima dell’interesse, la capacità di portare questi eventi nei confini del pensabile. Non dico in tutti ma nell’opinione prevalente sì. Lo capisco: a chi piace tenere conto che un bambino può morire per mano di chi dovrebbe proteggerlo? Solo che proprio questa fatica ci impedisce di evitare altre morti.
La storia di Evan insegna. Intanto, a guardare le cose da vicino e a capirle, perché dà quasi soddisfazione essere “contro”, dire “tutti sapevano e nessuno ha parlato”. Forse è vero, ma capiamoci. Tutti hanno visto: tutti chi? E che cosa hanno visto?
Sono tante le domande, tantissime. Tanti gli elementi di sistema che dovrebbero essere cambiati IERI, e vengono denunciati a più riprese dalle associazioni che si occupano di tutela dei bambini, magari le stesse accusate, a torto, di volerli separare dalla famiglia per partito preso.
Evan viene refertato tre volte all’ospedale di Noto: il 27 maggio per frattura scomposta del femore destro, il 12 giugno per una ferita infetta, il 6 luglio per la frattura di una clavicola. È accompagnato dalla madre e dal compagno i quali spiegano le lesioni con le cadute nel gioco. Nel secondo e terzo caso la mamma consegna il bambino ai medici e si rende irreperibile. (Mi chiedo se il suo andarsene non fosse un tentativo di proteggere il figlio, affidarlo ad altri per sottrarlo alle violenze, ma è solo una fantasia).
Al terzo ricovero, il 6 luglio, i sanitari segnalano Evan per sospetti maltrattamenti in famiglia. Va già bene che l’ospedale sia sempre lo stesso, ho visto casi di genitori maltrattanti che accompagnano il figlio ogni volta in luoghi di cura differenti in modo che neppure il sospetto si insinui. Lo stratagemma funziona per il semplice fatto che le banche dati non sono collegate; già questa sarebbe una cosuccia superabilissima, per i mezzi che abbiamo, ma evidentemente non è urgente. Per inciso, a mia conoscenza anche le banche dati delle forze dell’ordine non sono in comunicazione, pertanto se in una famiglia, per fatti di violenza, intervengono una volta la polizia e un’altra i carabinieri, non sanno l’una degli altri e nessuno può ragionare sul fatto che 1+1 fa 2. Tra i sistemi informativi di sanità e forze dell’ordine, stesso discorso. E tra quelli di sanità e servizio sociale, idem. Sulla proposta di sciogliere il nodo si troverebbe facilmente chi oppone la privacy e protesta contro il grande fratello (orwelliano; quello della tv va benissimo).
Il padre del bambino si era rivolto alla Procura di Genova, città in cui vive e lavora, il 6 agosto. Si è parlato del fatto che le carte sono arrivate alla Procura di Siracusa soltanto il 22, cinque giorni dopo la morte del piccolo. Il Procuratore di Genova ha spiegato che non avrebbe potuto essere diversamente: si è trattato non di una querela ma di un esposto, non erano precisati i sospetti, non era chiarita la gravità, non erano allegati referti. Aggiungiamo (lo aggiungo io) che c’era di mezzo il ferragosto, ragionevolmente le ferie del personale a rotazione, il sovraccarico di altri esposti e altre denunce contemporaneamente da iscrivere, trattare ecc., e tutto è chiaro.
Probabilmente il Procuratore di Genova, in relazione alle sue responsabilità e ai mezzi di cui dispone, ha ragione. Quando il fatto è accaduto siamo bravi tutti, ma in quel momento aveva gli strumenti per capire la gravità, e aveva i mezzi per sbrigarsi? Forse no.
Avrebbe potuto pensarla diversamente la giustizia minorile. Quella, cioè, incaricata di vegliare sulla sicurezza e il benessere dei bambini, a prescindere dai reati accertati. Il Tribunale per i Minorenni deve interrogarsi anche sui fattori di rischio e può assumere provvedimenti di sostegno, di allontanamento, di adottabilità se necessario. Capiamoci: sono una miriade gli interventi di sostegno alle famiglie, pochi quelli di allontanamento, infinitamente di meno le dichiarazioni di adottabilità.
È chiaro che un padre non è tenuto a conoscere le distinzioni tra giustizia ordinaria e minorile, non sto parlando di questo. Voglio solo spiegare perché è così necessario che la giustizia minorile ci sia, e perché è così fondamentale che abbia uno sguardo diverso da quella ordinaria. È fondamentale che si interroghi sui segnali di pericolo, oltre che sulle violenze conclamate, e possa disporre allontanamenti precauzionali anche quando i maltrattamenti sono sospetti e non ancora acclarati, perché i bambini non possono difendersi da sé.
Può sbagliarsi? Sì, certo, come ogni espressione umana. Ma è fondata su una base giuridica e scientifica. Occorre procurare che quella base sia sempre più fine, approfondita, verificata e questa, solo questa, è la massima garanzia per bambini e famiglie. Non i processi mediatici. Credere alle dichiarazioni dei genitori per proteggere i figli, specie quelli molto piccoli che non possono parlare per sé, è illusorio. A quanto si legge, nemmeno la madre di Evan è veramente sincera – per difendersi dalla giustizia, dal senso di colpa, o chissà perché. Sgocciola ricordi via via che l’indagine procede e la costringe a farlo ma protegge se stessa, non la verità dovuta nei confronti del figlio, neppure adesso.
La morte di Evan e i tempi della giustizia dovrebbero farci capire quanto sarebbe deleterio per la sicurezza dei bambini cancellare l’art. 403 del Codice Civile, quello che rende possibile l’allontanamento di un bambino in condizioni di grave rischio o pregiudizio. Ricordiamocelo ogni giorno. Nella schizofrenia generale ci si chiede perché Evan non è stato allontanato, ma il giorno prima e il giorno dopo ci si lamenta per questo o quel bambino fuori famiglia. Lo ripeto: non saranno mai i genitori a dire ai giornalisti come stanno le cose. Si lamenteranno con la medesima foga quando sono sinceri e anche quando mentono. E chi ha altre notizie non le potrà dire.
Non ci sono i dati, e nessuno ci dirà, quanti piccoli Evan sono invece sopravvissuti proprio grazie al fatto che sono stati allontanati. Ma per essere stata a lungo dentro al sistema posso dire con certezza che gli Evan in salvo ci sono. Purtroppo sono destinati a diventare sempre di meno. È tale la crociata contro i servizi sociali e la giustizia minorile innescata da anni, e rinforzata nell’ultimo, che si fa di tutto per non eseguire un allontanamento e i bambini ci rimettono, quando muoiono ma anche quando vivono in condizioni inaccettabili e sviluppano patologie o devianze.
Evan aveva un fratello di 6 anni. Mentre il primo subiva fratture, ustioni, tagli, tumefazioni… c’era Giuseppe, che sarà pure stato maggiore ma era piccolo. Molto piccolo. E quel bimbo è un sopravvissuto, è una vittima, ha bisogno di essere aiutato. È stato affidato al padre, e speriamo riceva il supporto necessario.
I servizi sociali non hanno protetto Evan, l’hanno detto in tanti. Vorrei però sapere come sono organizzati sul territorio, quanti operatori si occupano di minori e se in modo esclusivo o insieme a tutto il resto (adulti, anziani, disabili). Non è un’affermazione buttata lì per assolvere il sistema. È dire che la vera riforma per garantire la sicurezza dei bambini non è diminuire e sminuire l’intervento del servizio sociale ma potenziarlo e valorizzarlo, come pure la giustizia minorile dandole un’organizzazione sensata sul territorio e forze adeguate a livello di cancellieri oltre che di magistrati. Solo con un sistema di protezione adeguato non piangeremo la morte di altri piccoli Evan.