Qualche giorno fa sono passato in curia vescovile come faccio ogni tanto per incontrare un amico prete.
Vedo una persona che transita da un ufficio a un altro e solitamente molto occupato, lo colgo al volo senza nessuno attorno approfittandone per salutarlo.
Non faccio in tempo di chiedergli “Come va?” che già lui mi racconta delle nuove problematiche che deve affrontare, avendo acquisito da poco una parrocchia in pieno centro, che riguardano gli immigrati che lui accoglie, i suoi vicini (italiani) insoddisfatti della presenza di tanti stranieri e come ciliegina sulla torta, un bar quasi contiguo alla parrocchia frequentato da persone di estrema destra. L’intervento della Caritas naturalmente si traduce in effetto tampone delle situazioni di disequilibrio e nulla più… E’ chiara la sua insoddisfazione rispetto alla situazione che sta vivendo…
Ma anche il mio vecchio parroco quando veniva a farmi visita per la benedizione delle case, faceva e diceva – più o meno – le stesse cose. Si metteva in poltrona come per volere chiacchierare con me e poi attaccava dicendo che siamo invasi dai musulmani, ma perché vengono da noi, non potrebbero stare a casa loro, e come si fa ad aiutare tutti questi immigrati che bussano alla sua porta, e che sono troppi…ecc…ecc… Il fatto che lo venisse a dire proprio a me che ho fatto del rispetto dei Diritti Umani una parte importante del senso e del significato della mia vita, mi è sempre sembrato strano e tutt’ora non so se lo facesse per convincermi della bontà delle sue argomentazioni, oppure che volesse più semplicemente essere ascoltato. Certamente il suo monologo a me sembrava più uno sfogo.
Con l’andar del tempo, però un pensiero sul mio vecchio parroco mi si è inchiodato fisso: molto probabilmente, aveva sbagliato “mestiere” perché, a mio avviso, le parole di Gesù sull’accogliere sono ineludibili. Il cristiano deve sapere sempre accogliere se vuol dirsi cristiano. Sul come, dove e quando: qui si innesta l’ampio dibattito dove la diversità delle opinioni dovrebbe essere una ricchezza per la Chiesa e non dovrebbe certamente scandalizzare nessuno.
Ho citato queste due esperienze per sottolineare quanto sia imprescindibile il fatto che in cima alle preoccupazioni dei parroci – oltreché il fattore economico, soprattutto quando le finanze siano in palese dissesto – ci sia il tema dell’accoglienza e del rapporto fra gli immigrati e il contesto in cui vivono.
Ricordandoci che i parroci sono fra le antenne più qualificate nel percepire il disagio sociale e l’influenza delle varie povertà nei propri territori.
Ed è chiaro che poco o nulla passa nella formazione dei preti su il dotarsi di strumenti per avvicinarsi all’Altro e sul significato profondo del dialogare e sul perché lo si fa. Quindi sono perfettamente comprensibili il disorientamento, le paure, le difficoltà dei cattolici e la profonda spaccatura al nostro interno sul tema dell’accoglienza dello straniero.
Ma io vorrei andare oltre.
Mi piacerebbe che ci contraddistinguessimo, tutti, come un Popolo in Cammino.
In altre parole, cioè, dobbiamo solo ammettere che siamo tutti e sempre peccatori. E bisognosi di conversione.
Fa bene allora il mio amico prete – appena insediatosi – a mettere al centro della sua pastorale parrocchiale la Scuola Biblica, addirittura aprendola a tutta la città e dintorni. Tutto dovrebbe partire dalla Parola di Dio – dalla comprensione, immedesimazione – e di conseguenza, attraverso la conversione dei nostri cuori, dovremmo muovere i nostri passi.
Non possiamo pensare che l’accoglienza dei migranti sia un nostro imperativo perché ce lo dice il Vangelo, se non passa attraverso una nostra conversione. In altre parole, non solo con la testa dobbiamo attrezzarci per accogliere, ma mettere anche in comunicazione il cuore (il sentimento) e la pancia (le nostre emozioni). Diversamente, non funziona!
E vorrei dire agli amici della Caritas o di chiunque altro è operativo per l’accoglienza, che la questione non è meramente tecnica ma è squisitamente relazionale.
Il mio amico prete ha giustamente delegato a dei laici i compiti della Caritas. Ma non è più sufficiente attivarsi solamente (fare cose), serve attivare le relazioni: fra i volontari e gli immigrati; fra volontari e volontari.
Occorre parlarsi: dei propri disagi, delle proprie inquietudini e perché no, anche delle proprie gioie. Bisogna chiedersi dopo che è finito un progetto che ricadute ha avuto fra i volontari, come si sono sentiti, che difficoltà hanno avuto, che riflesso ha avuto sulla comunità, che tipo di partecipazione si è avuta dalla comunità, se quel progetto di accoglienza può avere una capacità di futuro e se e come eventualmente si può ridefinire.
In una tale complessità della nostra società, nulla è semplice, tutto deve passare attraverso l’approfondimento, il più possibile, la formazione e solo attraverso le relazioni possiamo intravvedere un futuro di convivenza che soddisfi tutti, proprio perché prende in considerazione l’umanità di ciascuno di Noi.
Le opere dovrebbero essere solo il corollario di tutto ciò.