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Ragazzi in uscita dalla tutela. Il desiderio e il bisogno di contare

DiElena Buccoliero

Ott 17, 2019

Per iniziare a colmare questa lacuna, nel 2017 si è messa all’opera Agevolando, l’associazione nata per sostenere nella transizione alla maggiore età gli adolescenti in comunità o in affido familiare.

Con il supporto essenziale di Valerio Belotti, docente di sociologia all’Università di Padova, Agevolando ha promosso un’indagine che ha interpellato tramite questionario 190 ragazzi e ragazze tra i 16 e i 25 anni. Tutti avevano in comune il fatto di essere, o essere stati, fuori famiglia per un periodo significativo della loro vita. I dati sono stati successivamente approfonditi attraverso testimonianze dirette.

Una parte del campione era composto da ragazzi stranieri arrivati soli in Italia, con un’esperienza di separazione dei genitori del tutto diversa da chi è in un percorso di tutela, e il 47% degli aderenti era concentrato in Emilia-Romagna. Pertanto, come gli stessi promotori tendono a sottolineare, la ricerca non può dirsi rappresentativa della totalità degli adolescenti fuori famiglia ma è anche l’unica di questo genere e ciò che fa emergere merita di essere conosciuto.

Il giudizio complessivo sull’esperienza in comunità/affido è positiva. Il 70% degli intervistati la rilegge come un’opportunità positiva di cambiamento, il 58% dichiara di aver costruito in quel contesto legami importanti e ben il 51% la considera un’ancora di salvezza. Le percentuali sono più alte tra i maggiorenni che, ormai fuori dai percorsi di accoglienza, guardano alla loro storia con maggiore distacco e con la possibilità di confrontarla sia con il vissuto familiare, sia con l’attuale fase di autonomia.

Non mancano le criticità. Solo la metà degli intervistati, al momento del distacco dai genitori, ne conosceva chiaramente i motivi, uno su quattro li intuiva e per un altro quarto non erano certi. In un caso su due l’allontanamento è stato improvviso e inaspettato, una modalità che si chiede di evitare se possibile ovverosia quando non ci sono particolari condizioni di urgenza o di rischio, o quando non si deve scongiurare la sottrazione del bambino né coprire un’indagine penale in corso per reati nei quali il figlio è presunta vittima. Nell’insieme comunque gli intervistati non riportano di aver subito allontanamenti ingiusti o immotivati.

È importante considerare ogni singola situazione e non imporre procedure standard”, scrivono i ragazzi, “valutando anche la presenza di parenti prossimi o altre figure di riferimento, adulti significativi, che non vogliamo perdere e da cui non è necessario venire allontanati. Spiegare anche alla nostra famiglia cosa sta succedendo e succederà, essere chiari, così da impostare una collaborazione futura e un percorso il più positivo possibile”.

Altre criticità vengono rilevate, e attengono alle caratteristiche del sistema: avrebbero voluto contatti più frequenti con i giudici che decidono per loro e la possibilità di essere ascoltati e coinvolti nelle scelte; hanno sofferto per il frequente turn over degli operatori (ogni volta che un assistente sociale si sposta, e succede spesso, bisogna ricominciare tutto da capo); hanno sentito la mancanza di un supporto psicologico, non sempre assicurato dal servizio pubblico durante il percorso fuori famiglia e ancor meno al suo compimento, quando devono incominciare a cavarsela da soli.

Un’ulteriore osservazione è particolarmente illuminante. “Mentre io ho lavorato molto su di me”, ha dichiarato un ragazzo, “mi aspettavo che anche i miei genitori lavorassero su di loro, purtroppo non è andata così. All’inizio pensavo che i miei genitori non fossero abbastanza motivati per cambiare, che non ne valesse la pena per me, poi ho capito che forse la loro volontà, da sola, non era sufficiente. I miei genitori avevano delle difficoltà e non potevo pretendere che da soli le risolvessero; come ho avuto bisogno io di un sostegno, anche per loro sarebbe stato necessario”. Effettivamente chi lavora nella tutela minori lo sa bene, i servizi sono assorbiti da continue urgenze e da una cronica carenza di organico, oltretutto in rapidissimo turn over perché il contatto con la sofferenza dei bambini, e negli ultimi anni con una conflittualità spesse volte esasperata, è logorante per tanti operatori che, appena possono, scelgono un altro settore. Quando poi si intercettano famiglie in grave difficoltà tante le energie vengono concentrate nella protezione dei figli, ed è un bene, ma poco si fa per sostenere i genitori. Va da sé che per questi ultimi sia molto difficile intraprendere il percorso di cambiamento auspicato e necessario per riunire il nucleo familiare. Cresce il tempo del distacco, si allarga la zona grigia di quelle famiglie dove non si può proprio dire che ora va tutto bene, ma non si può nemmeno dire che va talmente male da interrompere per sempre i rapporti genitori-figli, come accade con l’adozione. E mentre il tempo passa i ragazzi strutturano le loro relazioni importanti con gli adulti che hanno intorno, genitori e operatori o affidatari a seconda dei casi.

Il desiderio e il bisogno di contare emerge chiaramente dalla ricerca. Il 60% si è sentito coinvolto in modo diretto e attivo nel proprio progetto e il 56% si è sentito preso in considerazione nelle decisioni, ma un altro 33% ritiene di essere stato interpellato solo sulle questioni di minore importanti.

Un legame molto forte è quello che si struttura con gli educatori delle comunità, con i quali il rapporto è quotidiano. Sono le persone di cui i ragazzi e le ragazze si sono fidati di più ma anche quelle che hanno dato loro maggiore fiducia. Oltre il 60% restituisce l’immagine di una comunità aperta, dove amici o persone esterne erano accolti volentieri, e questo è stato molto importante per assicurare normalità e ridurre il peso di un etichettamento sempre possibile.

Agli educatori e agli assistenti sociali vorrei dire che credo sia molto importante ascoltare sempre il punto di vista dei ragazzi e di non arrendersi davanti ai rifiuti e alle difficoltà. Di non voltare mai le spalle ai giovani che vi sono affidati. Spesso vi sembrerà che il vostro lavoro possa essere troppo difficile, qualche volta persino inutile, ma in realtà quello che fate è davvero prezioso e può cambiare la vita a tanti. Per me è stato così”.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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