Raramente il Corriere della Sera dà spazio al movimento per la pace, con interviste o interventi. Questa volta ce lo siamo preso, in un confronto diretto (seppur a distanza) sulla politica europea, tra Romano Prodi (già Presidente del Consiglio) e Mao Valpiana (Presidente del Movimento Nonviolento). Visto che non lo fa il Corriere, lo facciamo noi. Una intervista doppia, per gioco, un gioco serio. Così ognuno può valutare. Buona lettura.
INTERVISTA DOPPIA*
Romano Prodi: «Avrei votato sì al piano Ue ma è un passo troppo prudente»
Mao Valpiana: «L’Europa ha bisogno di politiche di pace, non di riarmo»
Corriere della Sera (21 marzo 2025), domande di Marco Ascione.
Ricomponiamo il puzzle: Strasburgo, 12 marzo, il Parlamento europeo approva la risoluzione sul piano di riarmo, con l’Italia al voto in ordine sparso. Lei che cosa avrebbe fatto?
Romano Prodi «Avrei votato sì. Anche se si poteva cambiare nome fin dall’inizio. Era chiaro che si sarebbe trattato di un progetto di collaborazione di lungo periodo tra i Paesi europei!».
Mao Valpiana «Non lo avrei votato. È un piano specchietto per le allodole, fumo negli occhi. Con la parola “riarmo” si vuole far credere agli europei che devono sentirsi più protetti. È esattamente il contrario. Saranno più insicuri e più poveri».
La nuova formulazione utilizzata da Ursula von der Leyen, «Readiness 2030», ossia pronti nel 2030, la soddisfa?
R.P. «Mi ha fatto un po’ sorridere la dichiarazione di essere pronti a cooperare nel 2030. E arrivati a quella data che cosa succede? Non solo è una data lontana, ma manca totalmente l’indicazione di una volontà precisa sulla comune difesa. Sono passi ancora troppo prudenti. Una maggiore cooperazione senza contenuti non basta».
M.V. «Ma stiamo scherzando? Giochetti da imbonitori di fiera paesana. Si cambia il nome, ma la sostanza resta la stessa. Non siamo pronti affatto, e non lo saremo nel 2030, fino a che non ci sarà un vero governo dell’Europa, eletto dai cittadini, e un Parlamento in grado di legiferare, e dunque di avere una politica estera comune, una politica unica di cooperazione e sicurezza».
Il ministro Crosetto, in una lettera al «Corriere», ha sostenuto che la difesa comune, allo stato dei fatti, è una mezza utopia perché è formalmente prevista nei trattati ma per sbloccarla servirebbe un voto all’unanimità del Consiglio europeo.
R.P. «Ma di che cosa stiamo parlando? Il voto all’unanimità si può saltare, basta volerlo. E con l’euro che cosa abbiamo fatto? E se Orbán lo preferisce si faccia il suo esercito con i suoi pennacchi».
M.V. «Prima di tutto bisogna mettersi d’accordo su cosa si intende per “difesa”. Difesa di chi, di cosa? E da chi, o da cosa? Quali sono i “nemici” reali? E dunque quali gli strumenti più utili per renderli innocui? La bomba atomica ci difende dallo scioglimento dei ghiacciai e dalle variazioni climatiche?».
Suggerisce quindi un’Europa a due velocità sulla difesa?
R.P. «Certo, si parte con chi condivide il progetto. Poi chi vuole segue».
M.V. «Sul tema “difesa” l’Europa è a 27 velocità, pensata solo come nazionale e non comune».
Il piano europeo, per come è stato congegnato, non rischia di far esplodere i debiti nazionali? La Germania si è mossa in autonomia attivando il suo «bazooka» e togliendo il freno agli investimenti. La Francia e la Polonia sono intenzionate a spendere, ma molti Paesi restano alla finestra.
R.P. «La questione del debito pubblico è diversa da Paese a Paese. È chiaro che la Germania nel 2030 avrà un esercito più forte di quello francese, perché ha un bilancio della difesa che è più del doppio. E quindi, come sempre ripeto, la questione è un’altra: Parigi dovrebbe condividere il diritto di veto e l’arma nucleare. È questo il problema vero. Solo così la stessa Francia rafforzerebbe la sua posizione. Purtroppo, invece, la democrazia lavora solo sul breve periodo».
M.V. «Il piano della Ursula von der Leyen in realtà è un piano pensato soprattutto per la Germania, che sta già spingendo sull’acceleratore del riarmo tedesco. A 80 anni dalla sconfitta del Terzo Reich nazista, il riarmo in quella regione d’Europa, tra la Francia e la Polonia, non sarà senza conseguenze. La Storia della prima e della seconda guerra mondiale avrebbe dovuto insegnare qualcosa, ma una classe politica smemorata sta compiendo sempre gli stessi errori».
I tedeschi si sono mossi con una velocità impressionante.
R.P. «Il ragionamento di Berlino è limpido. Prima si sentiva garantita dall’ombrello americano e sapeva che il peso del suo passato era condiviso da tutta l’opinione pubblica . Ora c’è stata una scossa alle fondamenta, lo scenario è mutato. Il presente e il futuro sono diversi dal passato. Guardiamo anche alla Gran Bretagna che aveva lasciato l’Europa per le sue nostalgie imperiali e perché l’antico legame con Washington le garantiva un marchio di diversità rispetto a noi. Adesso agli americani di loro non interessa più nulla. Gli inglesi stanno scoprendo che l’Unione europea non è un tiranno, ma un protettore. Penso che entro 15 anni rientreranno nella comune casa di Bruxelles».
M.V. «L’abbattimento del Muro di Berlino, nel 1989, doveva aprire una nuova stagione di pace per l’intero continente (quella che Langer chiamava “la novità politica della vecchia Europa”); ma a partire dalla incompleta riunificazione delle due Germanie, si è persa l’occasione storica. Basta vedere l’enorme diversità di voti tra i lander che una volta erano DDR e i voti delle regioni dell’Ovest. Anche la Germania è a due velocità e favorire il riarmo tedesco in una stagione politica così incerta, è un errore fatale: quale sarà il governo, tra qualche anno, a gestire i nuovi micidiali sistemi d’arma che si stanno finanziando in deroga alla stabilità di bilancio? E se stessimo mettendo tutto in mano all’AfD?»
Lei ci crede nel processo di pace gestito da Putin e Trump?
R.P. «Non so come Trump abbia messo buono Zelensky, ma quel che è certo è che non si possono permettere di fallire. Sarà un cammino lungo e porterà obbligatoriamente a una conclusione».
M.V. «No, fino a che resta solo nelle loro mani, non sarà un processo di pace. Sia chiaro, se portasse davvero ad un “cessate il fuoco!” sarei il primo ad essere felice, ma la cessazione del fuoco è solo un primo passo della lunga strada per una pace condivisa, che deve necessariamente vedere seduti al tavolo tutti i protagonisti, a partire naturalmente dall’Ucraina, con tutte le vittime, e tutte le regioni contese».
Ha ancora senso stanziare aiuti per l’Ucraina?
R.P. «Sì perché testimonia che finché la guerra continua la solidarietà verso l’aggredito è un fatto concreto».
M.V. «Se stiamo parlando di aiuti umanitari e solidarietà con tutte le vittime della guerra, certo. Ma se stiamo parlando di inviare ancora armi in un teatro di guerra che è già saturo, allora no».
Una volta definiti i contorni della pace serviranno truppe sul campo per difendere lo status quo?
R.P. «È prematuro parlarne e comunque sembra che ci si orienti a limitare il coinvolgimento di truppe di pace appartenenti solo a Paesi neutrali, escludendo quindi l’Europa. Una posizione difficilmente condivisibile. Inglesi e francesi dicono che sono disposti subito a inviare soldati perché tanto sanno che non lo dovranno fare».
M.V. «Questa è l’occasione per proporre, ancora una volta il tema dei Corpi Civili di Pace Europei (se ne parla del 1995 con la proposta Langer-Gulcher). Certamente il lavoro di peacekeeping è fondamentale, ed è importante affidarlo alle mani giuste e competenti; ma a fianco di un “controllo militare”, ci vuole il lavoro di elaborazione del lutto, di ricostruzione della fiducia, di memoria comune, di riconciliazione e infine di costruzione di una futuro amico: questo lavoro non lo possono fare i militari, spetta a corpi civili professionali, appositamente formati. Sarebbe questo il ruolo dell’Europa nel dopo conflitto Russia-Ucraina».
Dopodiché Putin continuerà ad essere una minaccia?
R.P. «Sì se siamo divisi, no se siamo uniti. Se avessimo avuto la difesa comune, l’Ucraina non sarebbe stata invasa».
M.V. «Non lo so. Ma so che i passi unilaterali, anche di disarmo, provocano sempre un cambiamento di scenario, e spesso in modo virtuoso. Noi europei dobbiamo fare la nostra parte. La Russia farà la sua. Non siamo ingenui, ma non dobbiamo essere nemmeno prevenuti».
L’Italia è frammentata a destra e a sinistra, sia sul piano di difesa, sia sugli aiuti a Kiev. Perché?
R.P. «A destra e a sinistra ci sono radici storiche profonde che spiegano questa frantumazione. Giorgia Meloni politicamente parlando non nasce certo dalla Camera dei Comuni, ma affonda le sue radici in un ambiente di radicalismo di estrema destra. E anche a sinistra si sente l’eco di radicalismi altrettanto forti. È il ritorno degli ideologismi che sta rovinando anche l’America di Trump. Dottrina contro saggezza. Questa destra incapace vive perché la sinistra non è saggia. Se lo fosse non avrebbe indebolito la propria coalizione».
M.V. «La politica italiana è frammentata, ma l’opinione pubblica italiana su questo punto è maggioritaria e ha le idee chiare: no alla guerra e alle armi. Gli italiani sul tema pace/guerra si sentono rappresentati dalla pastorale di pace di Papa Francesco. Lo dimostra il grande affetto che riceve da chiunque».
L’Europa è più figlia del Manifesto di Ventotene così duramente attaccato in Parlamento dalla premier Giorgia Meloni o dell’azione di De Gasperi?
R.P. «È una distinzione che non ha senso. Gli autori del Manifesto non erano a Ventotene in vacanza, ma perché là deportati e confinati dal fascismo. Che cosa potevano pensare in quel momento? Alla Magna Carta? Alle sottigliezze del bicameralismo? Erano alle prese con il dramma del presente e hanno tratteggiato un sogno per il futuro. De Gasperi si è invece mosso a guerra finita, con realismo politico. È impressionante il gioco che fa Meloni e appare chiaro quanto sia pro Europa per possibile convenienza, ma non nell’anima».
M.V. «L’Europa è figlia di Ventotene, ma anche madre delle politiche attuali. Sono le contraddizioni della Storia, dentro alle quali bisogna trovare le ragioni per completare il sogno europeo. Siamo a metà del guado. Se stiamo fermi veniamo travolti. La strada, per me, ce la indica ancora Alexander Langer, il politico europeo “portatore di speranza”».
La presidente del Consiglio sostiene che non va separata l’Europa dagli Stati Uniti.
R.P. «Meloni si dovrebbe rendere conto che tutti vanno a Washington e lei no perché non c’è più bisogno dell’Italia. Così rischiamo di essere Arlecchino servo di due padroni. Chirac mi diceva sempre: non c’è Europa senza l’Italia. Purtroppo non è più così. Il futuro cancelliere tedesco Merz si è fatto sfuggire che a sostegno del tandem franco tedesco, c’è la Polonia e non più l’Italia. Questo è un nostro dramma nazionale».
M.V. «La vocazione europea è quella di essere una “potenza di pace”, tra i due blocchi militari degli Stati Uniti e della Russia. Stare al servizio di interessi altrui, è da sciocchi. Già Aldo Capitini parlava dell’Europa come “ponte tra l’est e l’ovest”, prendere il meglio di una e dell’altra parte, e lavorare per unire, non per separare».
Che cosa bisogna fare di fronte ai dazi di Trump?
R.P. «Vogliamo forse dire: fai pure? Non possiamo restare a guardare. Trump parla sempre di deficit americano nella bilancia commerciale con l’Europa. Questo è vero se parliamo di merci. Me se aggiungiamo anche i flussi di denari che derivano dai servizi, soprattutto dei big data siamo noi in leggero passivo. E se poi trattenessimo, con l’unità dei mercati finanziari, i 300 miliardi di risparmi europei investiti in fondi americani, allora recupereremmo anche parte delle risorse che ci servono per la difesa».
M.V. «I dazi di Trump sono una forma di pressione politica, prima che economica. Quindi la prima risposta deve essere politica, non economica. La dignità e l’autonomia dell’Europa deve essere difesa. Ci aspettiamo questo dalle classi dirigenti degli stati membri dell’Unione».
Nel Pd, dopo il disastro del voto in Europa sul riarmo, con la linea della segretaria Schlein che ha rischiato di finire in minoranza, si è riaffacciata la parola congresso.
R.P. «Io non entro nel dibattito interno del partito. Ma dico che è urgente costruire un’alleanza che vinca alle prossime elezioni, un’ alleanza progressista».
M.V. «Rispetto molto il dibattito interno dei partiti, ma non mi riguarda. Spero solo che il più grande partito di opposizione, resti sulle posizioni a favore delle politiche di pace».
Poiché questa alleanza dovrebbe essere fatta con il Movimento 5 Stelle, non sembrano esserci i presupposti, al momento.
R.P. «È per questo che il governo non è caduto, nonostante lo stato in cui si trova. Perché esistono opposizioni, ma non un’alternativa di governo».
M.V. «L’auspicio è che i partiti di opposizione trovino l’unità, e siano dunque possibile alternativa di governo, proprio sulle politiche di pace e disarmo».
*pubblicato su Comune-info il 25 marzo 2025 con il titolo “L’Europa non ha bisogno di riarmo