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Recensione: Carovane per Sarajevo, storie di eroismo umanitario

Diadmin

Ago 17, 2016

di Miriam Rossi

(articolo originariamente pubblicato su La Rivista VIA PO – Conquiste del lavoro)

“La guerra non si può umanizzare, bisogna soltanto abolirla”: in questo modo nel secondo dopoguerra il noto fisico Albert Einstein lanciava appelli alla pace che sarebbero confluiti nel famoso manifesto per il disarmo nucleare del 1955, promosso insieme al filosofo Bertrand Russell e sottoscritto da altri scienziati e intellettuali di prestigio. La riscoperta dell’umanità e l’individuazione di mezzi pacifici per la risoluzione delle controversie appaiono allora, come oggi, le sole scelte possibili per arrestare la minaccia alla sopravvivenza del genere umano. Infatti, a distanza di decenni e a dispetto della conclusione della guerra fredda con i suoi terribili equilibri basati sulla Mutual Assured Distruction (distruzione reciproca assicurata), non a caso una dicitura condensata nell’acronimo MAD (pazzo), la guerra continua a regolare le relazioni internazionali, sempre più definita come “umanitaria”, “inevitabile”, “necessaria”; le sue bombe sono divenute “intelligenti” e le sue vittime civili risultano “danni collaterali” delle operazioni.

La guerra non può però essere umanitaria perché consiste sempre in una distruzione di pezzi di umanità. Questo il messaggio corale condiviso da migliaia di volontari, italiani e non, che negli anni Novanta, nel corso del processo di dissoluzione della ex Jugoslavia, si impegnarono a portare la propria solidarietà attiva alle popolazioni coinvolte nel sanguinoso conflitto armato. Queste le storie, le riflessioni, le azioni raccolte nel volume di Francesco Pugliese, non nuovo nel confrontarsi con la storia dei movimenti pacifisti e di opposizione popolare alla guerra. La cultura della guerra che governa il mondo dei potenti, di chi è nelle stanze dei bottoni, è messa sotto accusa da ogni pagina del volume, dal quale emerge invece la forte mobilitazione popolare innescata da massacri e orrori indicibili, e il tentativo, non vano, di portare agli occhi del mondo la follia della guerra. È di queste significative esperienze di “diplomazia dal basso” e di eroismo umanitario che il volume “Carovane per Sarajevo” intende fare memoria.

La resistenza all’ubriacatura nazionalista che nutriva odio e innescava una guerra che conteneva in sé tutte quelle conosciute, etnica, confessionale, civile, imperialista, d’aggressione, non veniva solo dal di fuori dei confini jugoslavi. C’era anche un’altra Jugoslavia che tentava di sollevarsi contro i signori della guerra: le Donne in Nero di Belgrado, vestite a lutto “verso tutte le vittime di questa e di ogni guerra, verso l’assassinio della gente, la distruzione delle città, verso la devastazione della natura, verso la distruzione dei rapporti umani e dei valori positivi”, ma anche le donne croate e bosniache che si attivano in egual misura contro la guerra e la sua scia di sangue e violenza, o i giovani che si rifiutano di imbracciare le armi per uccidere. Lo scontro di queste donne e di questi uomini è contro “un regime che parla a nome nostro, indice guerra a nome nostro”, una resistenza nonviolenta alla guerra fatta di disobbedienza alla cultura dell’odio.

La narrazione si snoda tra lo scarso interesse dalla stampa verso l’inferno vissuto sui territori martoriati dalla guerra dai tanti pacifisti jugoslavi che si opposero al conflitto e dalle centinaia di volontari di associazioni italiane (e non solo), dai loro tentativi di portare aiuti e di esprimere la propria solidarietà; e il fragore mediatico delle bombe della NATO e l’impellente riflessione sull’impotenza e sulla fragilità dei caschi blu dell’ONU dietro alle quali si celano l’irresponsabilità e gli interessi degli Stati membri dell’Organizzazione multilaterale. Una stridente contrapposizione che evidenzia ancora oggi la strada che rimane da percorrere per cacciare la guerra dalla storia e non rendere lettera morta la Carta dell’ONU.

Miriam Rossi

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