L’appuntamento è per domani, quando i prati e il larice rifioriranno, il coniglio e la volpe correranno senza paura sui loro monti, e gli uomini torneranno alla casa da cui sono stati strappati, come schiavi deportati. Ma oggi siamo chiusi in una trincea, simile a una tomba, sotto il gelo, e abbiamo solo pertugi per guardare la bella natura, là fuori, minacciata come noi, e per spiare il pericolo mortale, nel nemico e nelle bombe. Là fuori, soltanto la solenne bellezza delle montagne, nella bellissima fotografia, a celebrare e ammonire sulla perpetuità della vita.
Preceduto da molta attesa, nel crescente clima del centenario della prima guerra mondiale, il film di Ermanno Olmi, vecchio singolare maestro del cinema, Torneranno i prati, accolto da un applauso al primo spettacolo nel cinema Romano, ti lascia nell’immediato col giudizio sospeso. È naturale: non vuole trascinare, ma indurre a sentire, a pensare. È lento e solenne, come una alta liturgia funebre, in una piccola comunità assediata, nella quale però pulsa l’intera tragedia e l’attesa dell’umanità. Infinito è il rispetto per questi uomini, comandati a stare sul ciglio dell’abisso. La morte miete tra loro. L’unica cosa viva, come l’erba futura, è la loro solidarietà, l’umanità restituita sotto i gradi strappati via dalla divisa. Arrivano ordini criminali, ma l’unica regola valida è aiutarsi a sopravvivere, fino all’uscita dall’inferno. Un altro pertugio dalla tomba sono le lettere, quando arrivano, quando si può scrivere alla madre.
«Sarà difficile perdonare» tutto questo. Sarà necessario – è suggerito tacitamente allo spettatore – non limitarsi a maledire la guerra ma costruire i rapporti umani, anche nelle divergenze e conflitti, con l’arte dell’amore intelligente per la vita, non con la folle scorciatoia senza uscita della morte.
Liturgia significa azione pubblica, come dev’essere la politica, atto di popolo. Il piccolo popolo della trincea sotto la neve agisce così per tutti noi.
Enrico Peyretti