27 gennaio 2021
Scrivo nel Giorno della Memoria.
Scrivo qualche giorno dopo che hanno fermato un giovane neonazista di Savona, che voleva fare una strage di ebrei. Ho anche negli occhi quel “dimostrante” americano all’assolto del Campidoglio di Washington, la sua maglietta con su scritto “Camp Auschwitz – work brings freedom”. Negazionisti e revisionisti aumentano di giorno in giorno. Un po’ ovunque cresce l’antisemitismo, e si moltiplicano gli atti di vilipendio contro i monumenti ai morti deportati e ai partigiani che hanno dato la vita per la libertà e contro il nazifascismo.
Un brivido freddo mi percorre il corpo.
Sono passati solo settantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ma sembra che per molta gente, quello è un’epoca ormai remota, da consegnare ai libri di storia. Viviamo un’era dove una notizia dura uno o due giorni, e poi sparisce nella grande discarica informatica e mediatica. Così, l’odio e l’aggressività on-line permettono ai più esecrabili esseri umani di dare libero sfogo a pensieri e teorie orrende e deprecabili. E poi di non farsi prendere.
Ragazzi leggono queste cose. Ragazzi sono impressionati da questi discorsi. Ragazzi vogliono emulare i “signori dell’odio”. In un mondo alla deriva, tutte le derive sono ammesse. Così, si allarga il mare di bestialità e di cattiveria che invade l’immaginario dei giovani. La violenza, il terrorismo, la sopraffazione, il razzismo, l’arroganza e la brutta forza fisica la fanno da padrone.
Intanto, i governi, i media, la giustizia, l’istruzione sembrano incapaci di fermare questa pandemia (altroché covid…). Gesti significativi, ma sporadici, non riescono a debellare la malattia. Troppo spesso, i tentativi di contrastare questi fenomeni arrivano quando l’orrore è già accaduto, quando è troppo tardi, in un circolo vizioso che vede sempre la violenza colpire per prima, e poi qualche forma di indignazione e di reazione esprimersi. E di fronte ad ogni recrudescenza di odio, sembra sempre più debole parlare di tolleranza, appellarsi alla fratellanza. Il senso di impotenza porta allora all’indifferenza.
È da qua che bisogna ripartire. Dalla lotta all’indifferenza.
In questo Giorno della Memoria, ritorno novant’anni indietro. Torno alla Germania degli anni Trenta e l’accesa di Hitler e del nazismo. In poco tempo, la grande maggioranza dei tedeschi ha accettato una ideologia profondamente razzista, un percentuale non indifferente addirittura entusiasta dei proclami di Hitler.
Essendo io stesso mezzo-tedesco, e avendo vissuto qualche tempo in Germania, ho sempre chiesto alle persone delle generazioni che hanno vissuto quel periodo tremendo, com’era possibile che ci fosse stata una tale adesione all’idolatria di Hitler e del nazismo. Non ho avuto risposte convincenti. Il più delle volte, ci si nascondeva dietro un comodo “non sapevamo niente”.
Cosa? Non sapevate niente delle leggi antisemiti? Non sapevate niente dei negozi di ebrei imbrattati da scritte ingiuriose, e poi saccheggiati nella notte dei cristalli? Non sapevate niente delle famiglie del vostro quartiere che erano lì da sempre, e da un giorno all’altro, non c’erano più? Non sapevate niente, mentre marciavate entusiasti in uniforme nazista gridando slogan inneggianti alla razza ariana superiore? Non sapevate niente dei campi di concentramento e di sterminio?
Sembra impossibile in una tale situazione, che solo pochi abbiano tentato di ribellarsi, di resistere, di combattere contro il male.
C’era anche lì, l’indifferenza…
Ho vissuto la mia infanzia fino a otto anni, in un villaggio che si chiama Le Chambon-sur-Lignon, nell’Alta Loira in Francia. Ero piccolo, non capivo i discorsi dei grandi, ma sentivo bene che c’era una atmosfera speciale quando, nella nostra casa di accoglienza della chiesa protestante, i miei e loro amici conversavano. Non potevo saperlo, ma spesso parlavano del passato recente del paese e della zona, un passato dove la gente non è rimasta indifferente, dove donne e uomini hanno salvato migliaia di vite umane.
Erano i primi anni Quaranta. La Francia aveva perso la guerra con la Germania, i nazi avevano occupato Parigi e avevano firmato un armistizio (a senso unico…) con i disfatti, nella persona del Maresciallo Pétain (eroe della prima guerra mondiale). Metà della Francia era sotto controllo tedesco, metà sotto controllo del “regime di Vichy”, dov’era stata insediata la capitale della cosiddetta Francia libera. Da giugno 1940 a maggio 1945, la Francia ha seguito sempre più servile, i diktat di Hitler. Ovviamente inclusa la persecuzione degli ebrei.
Anche in Francia c’erano campi di concentramento (li chiamavano campi di “internamento”), costruito prima per i tanti rifugiati spagnoli della “retirada”, quando la guerra civile fu vinta da Franco. Ma dopo la capitolazione della Francia nei confronti della Germania, questi campi diventarono presto il luogo di deportazione degli ebrei. Nel solo campo di Gurs, arrivarono nell’ottobre del 1940, 6500 ebrei cacciati dalla Germania dai nazi. Cominciò così, una vergognosa repressione degli ebrei, anche nella Francia collaborazionista. Alla faccia di “Liberté, Egalité, Fraternité”!
Negli anni bui della collaborazione e del dominio nazista in Francia, furono ricevute dalla gestapo e dal governo di Vichy, più di 4 milioni di lettere di delazione (nel periodo 1940-1944). La collaborazione con l’occupante tedesco fu fervente, a volte aldilà delle aspettative dei nazi. Seguirono le retate di ebrei, l’obbligo del porto della stella gialla, la caccia degli ebrei stranieri che si erano rifugiati in Francia, la patria dei diritti umani…
Fortunatamente, ben presto ci furono uomini e donne francesi che non accettarono di partecipare a questa vergogna. Presto, dopo l’occupazione della Germania, singoli cittadini cominciarono ad aiutare gli ebrei perseguitati, nascondendoli, fornendo loro falsi documenti, favorendo il loro passaggio oltre frontiera in Svizzera e in Spagna. Organizzazioni e associazioni umanitarie, assistevano i rifugiati dei campi di concentrazione, molte volte riuscendo con vari stratagemmi a farli uscire e trasferirli in case di accoglienza nelle zone più remote della “Francia libera” (queste azioni furono possibili fino al novembre del 1942, quando i tedeschi occuparono anche la Francia di Vichy, dopo lo sbarco degli alleati in Algeria).
Dal 1940 in poi, il Chambon-sur-Lignon, diventò presto un punto di rifugio per molti gruppi perseguitati (perché non c’erano solo gli ebrei, ma anche i comunisti, i massoni, gli omosessuali, gli zingari, ecc…). Il villaggio dove sono cresciuto era a maggioranza protestante. Gente che teneva viva nella propria memoria, le persecuzioni che i loro avi avevano sofferto da parte del Re di Francia, dopo la revocazione dell’Editto di Nantes (1685), una repressione durata quasi un secolo. C’erano due pastori al Chambon in quell’epoca: André Trocmé e Edouard Theis. Tutti due erano convinti nonviolenti, già dall’inizio degli anni trenta. Trocmé, in una predicazione fatta nel giugno del 1940, aveva lanciato l’appello a resistere contro la tirannia nazista con “le armi dello spirito”. Fu il primo appello alla resistenza in Francia.
Per tutta la durata della guerra, molti pastori protestanti della regione, e anche qualche prete cattolico, trasformarono questo invito alla resistenza nonviolenta in atti concreti. Si calcola che alla fine della guerra più di 5000 rifugiati e perseguitati ebbero la vita salva grazie all’impegno diffuso degli abitanti della zona nel nasconderli e sottrarli alla caccia che gli davano i collaborazionisti e la gestapo. Solo alcune decine di rifugiati ebbero la sfortuna di essere arrestati e mandati ai campi di sterminio tedeschi.
Anni dopo, a chi definiva questi salvatori, “eroi”, rispondevano: “no, abbiamo solo fatto la cosa normale. Come ce lo dice la nostra coscienza.”
Alla faccia dell’indifferenza!
Recentemente, ho cominciato a scrivere un romanzo ambientato lassù nel “Plateau” (l’altopiano dell’Alta Loira), proprio in quel periodo della storia. Mi sono lanciato in una ricerca approfondita di tutto quello che succedeva in quegli anni bui in Francia. E ho imparato molte lezioni di coraggio e di integrità umana, in mezzo all’orrore della guerra. Ho capito che ci sono momenti in cui si deve scegliere cosa fare. Accettare l’odio, la discriminazione, la sopraffazione, la violenza, o lottare contro essi. E ho scoperto che tanta gente sparsa in tutto il paese, non ha esitato un momento, ed ha deciso di resistere.
La resistenza in Francia è stata maggiormente armata. Soprattutto dopo la disfatta nazi in Russia, la gente ha cominciato a darsi alla macchia per combattere i nemici interni (collaborazionisti) e i tedeschi. Anche nella zona del Chambon, si formarono gruppi di “maquisard” (partigiani) che venivano riforniti in armi dagli alleati. La storia degli scontri fra resistenti e tedeschi è una lunga scia di sangue e di morte.
Allora, risulta ancora più ammirevole, la resistenza nonviolenta di tanti cittadini normali, che semplicemente nascosero, nutrirono, aiutarono a fuggire e protessero migliaia e migliaia di perseguitati. In silenzio, sottotraccia, nell’anonimato, senza vantarsene. Sempre a rischio della propria vita.
Da questa storia, ho tratto un grande insegnamento. Sono anche le piccole azioni singole che possono sconfiggere il male, l’orrore, la vigliaccheria, l’egoismo. Sono le piccole azioni singole che possono trafiggere l’indifferenza. Senza dovere per forza ricorrere alla violenza. Lo dicevano questi pastori protestanti: “se voglio lottare per la pace, non posso usare le stesse armi del nemico”.
Spesso, frasi come questa sanno di retorica intellettuale, di mere buone intenzioni.
Ma in quegli anni della seconda guerra mondiale, lassù nel Plateau, uomini e donne come me e te, hanno dimostrato che i principi della nonviolenza possono trasformarsi in concreti, solidi e vincenti atti di resistenza. Atti di umanità. Atti di fraternità.
Oggi più che mai, la memoria e la storia ci possono aiutare a trovare i giusti strumenti, le giuste azioni, per lottare contro le mille barbarie e nefandezze che sembrano dominare il mondo.
Che il Giorno della Memoria diventi tutti i giorni della vita!
Christoph Baker