“Allora voi volete la resa!”.
di Mimmo Cortese
Il solo suono della parola “resa” blocca il respiro. La guerra non è ancora un tabù (come invocava, inascoltato, Gino Strada), la resa, inequivocabilmente, sì. Tutti (si fa per dire) ambirebbero alla pace ma solo dei folli o degli infami prezzolati potrebbero pensare alla resa come uno degli strumenti possibili verso quella direzione.
Dietrich Bonhoeffer, uno dei massimi teologi del Novecento e figura luminosa dell’opposizione e della lotta tedesca al nazismo, nella celeberrima raccolta dei suoi ultimi scritti, Resistenza e Resa, afferma, in un passaggio fondamentale: “Spesso ho pensato a dove passino i confini tra la necessaria resistenza alla “sorte” e l’altrettanto necessaria resa”. Bonhoeffer, per cercare di esplicare questa affermazione, fa un riferimento diretto al capolavoro di Cervantes e al celeberrimo racconto di Kleist, Michael Kohlhaas. Definisce Don Chisciotte come “il simbolo della prosecuzione della resistenza sino all’assurdo, anzi alla follia” e Sancio Panza come “l’esponente dell’adattarsi alle circostanze, senza problemi, con furbizia”. Purtuttavia egli crede che debbano essere presenti ambedue, resistenza e resa, in un “atteggiamento mobile e vivo” per “reggere” in maniera forte e significativa alle “situazioni del presente e renderle feconde”.
Bonhoeffer scrive queste parole dalle prigioni della Gestapo – è quella la situazione del suo presente – poco prima di essere assassinato, con un’esecuzione capitale, nel campo di concentramento di Flossenbürg, all’alba del 9 aprile 1945, poche settimane prima della caduta definitiva del regime nazista.
Credo che molte delle proposte e delle riflessioni successive alla nefasta e inaccettabile invasione russa dell’Ucraina nascano dal significato, spesso nebuloso, confuso, oppure malcelato, che viene assegnato alle parole Pace, Resistenza e, giustappunto, Resa.
C’è la pace dei “pacifici”, una mistificazione profonda, che gode di un discreto consenso. É quella condizione che ti consente di intrattenere per decenni rapporti di fruttuosi affari, di buon vicinato, di “pacifiche relazioni”, con chiunque, anche con chi – nonostante evidenze indiscutibili – tenga in poco o nessun conto, nei rispettivi paesi, del rispetto di diritti umani, delle condizioni minime accettabili di libertà, giustizia, democrazia. Così si può essere, pacificamente, senza batter ciglio, buoni amici di nazioni che vanno dal quadrante nordafricano, all’Asia, ai paesi arabi, alla Cina, che sono inseriti, a vario titolo, nelle liste stilate da Onu e agenzie internazionali per violazioni, talvolta gravissime e reiterate, di quegli indicatori e di quei principi. Questi pacifici sono gli stessi che, dal lato oscuro del loro abisso, non esitano ad alimentare, supportare e proseguire, “fino alla vittoria”, come nel caso ucraino, la risposta armata contro la Russia, vecchio amico e partner d’affari e di commerci, fino al 24 febbraio del 2022. Questa pace è un’orrenda bestemmia. Eleva la più nauseabonda ipocrisia a criterio generale di ogni scelta politica. Il sangue e il dolore altrui, anche quando coinvolge migliaia, milioni, di persone, è una variabile dipendente: da affari, profitti e posizionamenti geopolitici di privilegio.
Il conflitto è una delle condizioni dei rapporti sociali, che si sperimenta con grande frequenza anche nei rapporti personali. Una di quelle situazioni che possiamo “rendere feconde”, secondo la lungimirante visione di Bonhoeffer, proprio con quell’atteggiamento mobile e vivo cui ci richiamava nelle sue ultime parole. Tuttavia ci sono modi, molti modi, di agire e gestire il conflitto in maniera non distruttiva, delle persone principalmente. Si può fare a meno dell’uso della violenza nel conflitto. Sia di quella fisica, sia di quella morale. In quel tanto citato “ama il tuo nemico” quest’ultimo non cessa di essere tale. È lì, davanti a te, in opposizione! Il “sono venuto a portare non pace, ma spada”, altrettanto citato, racconta esattamente l’essenza di quel conflitto, la scelta – netta, precisa, come il taglio di una spada – che siamo chiamati a fare in innumerevoli, spesso difficili e delicate, situazioni. Quei due passaggi biblici non sono in contrapposizione ma sono legati insieme, stretti. Poiché in quel frangente il conflitto non sarà agito con il linguaggio del discredito, dell’insulto, dell’infamia. La mia azione non sarà un tentativo di sopraffazione, di sottomissione, di coercizione, di ferimento, di annullamento. Cos’è la guerra – ogni guerra, anche quella delle candide e belle intenzioni difensive – se non la sommatoria di questa sequela di ignominie elevate all’ennesima potenza?
Che esista un aggressore e un aggredito non traduce i primi nei cattivi e i secondi nei buoni se anche questi ultimi accettano di utilizzare gli stessi strumenti violenti, devastanti e distruttivi della guerra. Lo hanno certificato volumi di ricerche storiche e i dati raccolti dalle Nazioni Unite per tutto il secolo scorso e fino ad oggi: per ogni guerra – nessuna esclusa! – combattute da 1940 ad oggi le vittime civili, gli innocenti, sono sempre stati tra l’80 e il 90% del totale dei caduti sotto i colpi di entrambi i contendenti. Stragi di uomini e donne inermi, questo sono le guerre.
Ma allora come difendersi da regimi dittatoriali, da aggressioni armate e militari? La storia lunghissima e multiforme delle lotte nonviolente è una storia di resistenza. Una resistenza che ormai una lunga e approfondita elaborazione storiografica ha raccontato con grande precisione, nelle sue indubbie e ricorrenti difficoltà ma soprattutto nei suoi numerosi ed indiscutibili successi. Parlare di resistenza, nel ventunesimo secolo, senza mettere tra le prime e più feconde opzioni di gestione dei conflitti, in particolare di quelli più terribili e sanguinosi, la scelta nonviolenta – scegliendo al contrario, e senza indugio, l’opzione armata e militare della guerra – è un segno dell’assoggettamento, dell’asservimento al pensiero violento e brutale del più triviale patriarcato, una volontà di rimanere agganciati alla notte dei tempi della distruzione e dell’annichilimento dell’avversario, senza nessuna remora per l’uccisione indiscriminata di uomini, donne, bambini.
In decine di paesi, dalla caduta delle dittature sudamericane fino al crollo del blocco sovietico, la lotta a regimi sanguinari e militari, coronata dal successo, è stata preminentemente nonviolenta. Il crollo del regime sudafricano, solo per fare un esempio, dopo oltre 40 anni di apartheid, avvenne successivamente all’abbandono della lotta armata e alla scelta della resistenza nonviolenta degli oppositori al regime razzista. Avvenne solo dopo un lungo processo internazionale che isolò definitivamente i governanti segregazionisti in favore della parte di Nelson Mandela. Eppure questa lunga e significativa storia sembra ancora insufficiente a convincere dell’urgenza di abbandonare definitivamente l’opzione della guerra. Lo spettro, oggi, è la resa.
Nell’affrontare la prospettiva della resa emerge con inquietante evidenza quanto ancora profondo e diffuso nel globo sia il retaggio della sottocultura patriarchista e del suo potere marcescente e corruttore. Quell’atteggiamento mobile e vivo tra resistenza e resa cui ci invitava Bonhoeffer dalle carceri naziste, con una lucidissima e profetica visione, è ancora oggi sopraffatto dal miserabile accoglimento del fondamento patriarcale – da cui nasce ogni crimine – dell’occhio per occhio, dente per dente, attraverso il quale il maschio adulto lava ogni oltraggio, col sangue.
“Non si può cedere alla brutale invasione russa. Si consegnerebbe al massacro la popolazione ucraina”, questo l’assunto che obbligherebbe Kiev ad accettare il terreno della guerra.
Cedere. Cedere vuol dire abbassarsi, ritirarsi, può indicare il segno di una frattura, di una rottura ma significa anche dare, accordare, riuscire, avere esito. Cedere vuol dire anche passare e qui mi viene subito in mente un gioco dalle molteplici valenze simboliche, il rugby. Come tutti sanno si tratta di un gioco impegnativo, ruvido, dal forte contatto fisico. Nel rugby bisogna fare meta, superare con la palla la linea del fondo campo dell’altra squadra e fermare l’avversario, con il placcaggio, per impedirgli di compiere, a sua volta, la medesima operazione. Il placcaggio ha delle regole ma sostanzialmente bisogna afferrare l’avversario, bloccarlo, farlo cadere, farlo “cedere” cercando di impossessarsi della palla. È un gioco il cui il senso della squadra è fortissimo. Ma si diventa forti solo imparando l’arte di cedere, cioè allo stesso tempo accettare di cadere, di essere fermati, bloccati, momentaneamente vinti nel poter disporre del proprio corpo, della propria volontà, e nel medesimo momento apprendere la stessa arte del cedere, ma nell’altra accezione, cioè passare la palla al compagno libero, quello che sta dietro di te, ma che avanza con te pronto, a sua volta, a darti il suo “sostegno”, a smarcarsi, a cedere a sua volta fino che un giocatore – ma quello sarà il punto in cui si configurerà compiutamente il disegno dell’intero gruppo – non raggiungerà la meta. Nelson Mandela dovette intuire molto di questo gioco per assegnargli una così grande importanza, sia simbolica che materiale, nella ricostruzione di un Sudafrica libero.
Quindi cedere è anche un arrendersi. Nella gran parte delle volte è un atto nobile, un gesto di coraggio, soprattutto quando in ballo c’è la salvezza di vite umane, la cui perdita – quella sì – potrebbe essere un grave ed insuperabile vulnus. Nella resa quasi mai si può riscontrare infingardaggine, codardia, slealtà. Quelle si manifestano, spesso all’oscuro di molti, nella trama nascosta, nel mercimonio. La resa, proprio facendo tesoro delle riflessioni di Bonhoeffer, non coincide affatto con la fine della lotta. Tutt’altro, in molte situazioni rappresenta il suo più incisivo e duraturo inizio. Ogni conflitto ha i suoi momenti di cessioni, di cedimenti. Sono passaggi della lotta, in particolare di quella nonviolenta. Delle volte poi – la storia è piena di questi momenti – non è possibile chiudere o comporre un conflitto senza “intercessioni”. Che vuol dire proprio stare nel mezzo, interporsi tra due parti, accettandone rischi e responsabilità.
L’atto del cedere non ha assolutamente nulla di vergognoso. Sono l’ipocrisia, l’ambiguità, la pavidità ad averne.
La forza civile, l’opposizione di massa, la convinzione che senza consenso nessuna dittatura, nessuna occupazione militare può durare all’infinito sono stati l’autentico motore del cambiamento, di liberazione, scelti da Mandela o da Aung San Suu Kyi, per citare quelli più vicini a noi nel tempo. Una resistenza fatta di boicottaggi, di sabotaggi, di non collaborazione avrebbe, anche e soprattutto in Ucraina, enormi possibilità di successo per fare ripiegare l’invasore russo nei suoi confini e restituire a quel paese l’integrità territoriale e la libertà per il suo popolo. Nei primi giorni successivi all’invasione abbiamo visto diverse manifestazioni spontanee, potentissime, dei cittadini ucraini che andavano proprio in questa direzione. Purtroppo il governo ucraino, fino ad oggi, ha scelto la strada, sia pure comprensibile e legittima, della difesa armata attraverso una controffensiva militare. E tuttavia sarebbe compito di un consesso internazionale responsabile e lungimirante evidenziare le gravi conseguenze di questa scelta, non certo quella di supportarla ed alimentarla. Oltre a mettersi senza indugi dalla parte degli aggrediti esercitando tutte le innumerevoli pressioni internazionali, sempre più significative in un mondo interconnesso, anche a costo di pagare prezzi durissimi. La strada della conquista della libertà, del pieno esercizio dei diritti umani, della giustizia sociale e civile e della democrazia senza la più ampia condivisione è una radice tagliata, destinata al rinsecchimento, alla scomparsa.