Jan Palach, mezzo secolo fa, in una delle lettere scritte in preparazione e come spiegazione del suo gesto estremo – l’autoimmolazione in piazza San Venceslao a Praga – scriveva così: “Dato che la nostra nazione si trova in bilico tra disperazione e rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e risvegliare così la coscienza nazionale.” Palach si firmava nei suoi ultimi messaggi “Torcia umana numero 1”, lasciando intendere che altri del suo gruppo avrebbero imitato il suo gesto. Si toglieva la vita, dandosi fuoco, per spingere i concittadini all’azione, esponendo anche alcune richieste concrete, come la fine della censura, le dimissioni dei dirigenti filosovietici che avevano soffocato la primavera di Praga, l’ambizione cioè di costruire, come si disse all’epoca, un socialismo dal volto umano.
Palach non dev’essere dimenticato. Il suo gesto così drammatico e radicale ci ricorda un passaggio essenziale di ogni strategia di autentico cambiamento politico: la necessità di una rottura con l’ordine vigente. E’ un passaggio obbligato: è possibile pensare il cambiamento, in quanto vi siano voglia di opporsi, di protestare, di mettere in gioco il proprio corpo, la propria intelligenza, la propria capacità di relazione con gli altri. Palach, al suo tempo, si immolava quale torcia umana per svegliare il suo popolo dal torpore indotto dalla repressione, dall’autoritarismo del regime, dalla delusione seguita alle illusioni della ribellione praghese. Si può essere dubbiosi circa la sua scelta senza ritorno – il suicidio – ma non indifferenti al suo messaggio, che vale anche per noi qui e ora.
Viviamo una fase storica delicata. Pensiamo alla nostra Europa. Le diseguaglianze sempre più forti sono all’origine di tensioni sociali crescenti; assistiamo quasi impotenti alla crisi se non al rifiuto della dottrina dei diritti umani, negati di fatto alle persone che vengono da fuori (immigranti, richiedenti asilo, rifugiati); si riaffacciano nazionalismi che nemmeno nascondo le proprie tendenze autoritarie, auto definendosi sovranismi; il collasso ecologico incombe sul continente come sul resto del pianeta ma i sistemi politici e di pensiero sembrano unificati dall’incapacità di affrontare la questione con strumenti adeguati…
Il quadro è grave e quasi disperante, eppure la politica deve svolgere la sua missione: ossia individuare vie d’uscita e mettere insieme gli strumenti ideologici e pratici per incamminare la società lungo nuovi percorsi. E’ il lavoro in corso nei movimenti di opposizione, nelle correnti di pensiero e di azione che osano ancora immaginare il mondo fuori dagli schemi dominanti. Le idee non mancano, le esperienze concrete – a ben vedere – nemmeno. Movimenti sociali, reti associative e di altreconomia, imprese dell’economia civile e strutture autogestite: esiste un arcipelago di resistenze, di non conformità, di anticipazioni di un futuro diverso che costituisce un patrimonio politico prezioso.
Ma non si scappa dal punto indicato a suo tempo da Jan Palach, un giovane che osava agire e immaginare un mondo nuovo (non da solo) in seno al socialismo reale, in condizioni quindi più difficili, almeno sulla carta, di quelle che si incontrano all’interno degli attuali regimi democratici, dove le libertà di parola e di associazione sono garantite. Per scuotere dall’apatia e stimolare la partecipazione diretta, è necessario un momento di rottura; occorre spezzare la sterile oscillazione fra “disperazione e rassegnazione” e quindi “risvegliare le coscienze”.
E’ quel che serve anche a noi, qui e ora. E forse è quanto sta già avvenendo, neanche troppo sotto traccia, per quanto ne abbiamo una debole percezione. Tutti sappiamo dei gilet gialli francesi, da settimane, ormai mesi, mobilitati – in forme e con aspirazioni controverse – in una contestazione del “sistema”. E’ una protesta popolare – a quel che si legge – che in Francia i maggiori gruppi di potere politico, economico, mediatico stentano a controllare e in larga misura anche a comprendere. In ogni caso il minimo che si possa dire è che siamo fuori dal recinto della “disperazione e rassegnazione”.
Altre proteste corrono in giro per l’Europa. A Bruxelles a fine gennaio decine di migliaia di persone, per lo più giovani, hanno manifestato sotto lo slogan “Cambiamo il sistema, non il clima”, ultima di una serie di azioni mosse dal desiderio, dall’urgenza, di fare qualcosa contro gli annunciati, devastanti effetti dei cambiamenti climatici in corso. Un fronte sul quale i poteri correnti hanno dimostrato a più riprese la propria totale impotenza, succubi come sono di un sistema di pensiero – l’ideologia della crescita, lo logica neoliberale – che non permette il radicale cambiamento di rotta che sarebbe necessario. Movimenti analoghi a quello belga hanno animato proteste di piazza in altri paesi europei, dalla Germania alla Francia all’Olanda.
In Albania gli studenti medi e universitari sono scesi in piazza per contestare le riforme del sistema scolastico, orientate a limitare il diritto di accesso agli studi e a favorire lo sviluppo di un sistema formativo privato. La contestazione si è rapidamente estesa all’intera classe dirigente del paese, messa fortemente in discussione.
Nell’Ungheria del premier Orban, attuale (non dichiarato) modello per buona parte della classe politica europea, le strade e le piazze si sono riempite, nonostante il clima tutt’altro che favorevole alla contestazione popolare, di fronte alle cosiddette “leggi schiavitù”, introdotte per compensare, attraverso orari di lavoro più lunghi e condizioni retributive peggiori, la mancanza di manodopera causata dalla rigida politica contro l’immigrazione. Altre proteste di piazza hanno attraversato vari paesi europei, ad esempio la Serbia, per non dire dei movimenti contro la Brexit usciti allo scoperto nel Regno Unito.
Non è il fantasma del comunismo che si aggira per l’Europa, ma forse sta germogliando il seme di una protesta popolare non egoistica; forse nel corpo dell’Europa e in specie nella popolazione giovanile sta maturando la persuasione che è necessario, oltre che possibile, uscire dagli schemi di pensiero imposti. L’oscillazione fra disperazione e rassegnazione, cinquant’anni dopo Palach, non può essere il destino di un continente in crisi di identità ma ancora fertile per chi voglia coltivare – e sono molti – la prospettiva di una conversione ecologica e democratica dell’economia e della società, rompendo la camicia di forza del modello burocratico neoliberale che ci sta soffocando.