Da un decennio il PSd’Az si è collocato a destra. Ora, in stretta alleanza con la Lega, si è posto all’estrema. Niente a che vedere dunque con Lussu, di quel partito fondatore, mentre il fascismo muoveva i primi e decisi passi. L’antologia di suoi scritti politici, uscita poco dopo la sua morte, è infatti intitolata “Essere a sinistra: democrazia, autonomia e socialismo in cinquant’anni di lotte”.
Sono passati 44 anni dalla sua morte. Ne scrisse allora Vittorio Foa sul Manifesto un bel ricordo, riportato anche nel libro “Per una storia del movimento operaio”. Ci restituisce Lussu, nella sua leggenda e ruvida realtà. “Il giovane capitano della brigata Sassari, che torna alla sua isola dopo una sanguinosa esperienza di trincea, raccontata in un libro di sconvolgente bellezza, Un anno sull’altipiano, si fa organizzatore di pastori e pescatori, di contadini poveri e di minatori, si fa assertore di giustizia e di autonomia in una società oppressa dall’ingiustizia e dal centralismo statale”. Ricorda pure lo “scontro fisico coi fascisti che egli, consapevolmente volle affrontare da solo nella sua casa di Cagliari… congedò la vecchia governante, si armò e attese da solo gli aggressori”. Li avvertì di essere armato e pronto a colpire. “Entrarono dalle finestre con delle scale, Lussu uccise freddamente il primo che si affacciò mettendo in fuga la torma”. Altri esempi ha dato “di indomito coraggio nella lotta contro il fascismo avanzante”, mentre attorno a lui si moltiplicavano le conversioni. Non aggiungo nulla della sua intensa, avventurosa, coraggiosa vita, condivisa dal ’38 in poi con la straordinaria compagna Joyce.
Al momento della morte di Lussu io concludevo la mia esperienza di assessore al Comune di Ferrara. Nei primi anni ’60 ero nel Psi, lo stesso partito di Lussu e Foa. Di Foa leggevo e condividevo molto, anche se il mio riferimento era Riccardo Lombardi. Emilio Lussu – avevo letto di lui quanto potevo – era un mito, un eroe, una leggenda. Non l’ho mai incontrato, prima che se ne andasse, fondando con altri lo Psiup in opposizione al primo Centro sinistra. Al Congresso, ottobre 1963, che fece la scelta da lui non condivisa, descrisse questo approdo. “Al governo, al governo, si gridava nelle sezioni e si ripete qui, con l’ansia e la febbre con cui una carovana arsa dalla sabbia del deserto avvista l’oasi… mi sembra di vederla questa carovana che esce dal deserto e si avvicina all’oasi… in testa Nenni e De Martino tutti e due montati su cammelli; indietro, leggermente distanziato, c’è solo e ieratico Riccardo Lombardi, montato su un dromedario”. Poi anch’io lasciai il Psi, che si unificava col Psdi. Neppure nello Psiup però ebbi modo di incontrarlo. Aveva lasciato l’impegno attivo nel partito, confermando la sua scelta “sempre a sinistra”.
Alla sua morte il vecchio Psi aveva sciolto l’unificazione con il Psdi e stava passando da De Martino alle mani di Craxi, Lo Psiup si era sciolto nelle elezioni del ’72 e una sparuta pattuglia, con Foa e Miniati, aveva fondato il Pdup e sperimentava una non felice unione con Il Manifesto. Io ero lì e per me Lussu era una figura rispettata e lontana. Mi è tornata vicina mentre facevo una ricerca approdata nel libro su Silvano Balboni, ritrovandone qualche traccia nel percorso di Silvano e nei rapporti con Capitini, nell’immediato dopoguerra, con ripresa dei contatti del periodo clandestino e intensificazione nel tempo in cui Capitini insegnava a Cagliari. Netto era l’apprezzamento di Lussu per la proposta dei Centri di Orientamento Sociale e per il prioritario impegno per la pace: “Da questa scelleratezza, generalizzata nell’esercito da Cadorna, causa della morte di migliaia di soldati sardi, nasce la mia primissima rivolta morale alla guerra e alla classe che la provoca… Di guerre non ne vogliamo più e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola”.
C’è un altro aspetto che a me sembra particolarmente attuale di fronte a un’offensiva di destra, estranea e ostile ai principi fissati in Costituzione, alla quale sembra non si sappia rispondere. Dice Foa della resistenza solitaria all’assalto fascista alla casa: “Egli negava in un sol colpo tutta la realtà che lo circondava fatta di compromessi e capitolazioni e rinunce, una realtà di ripieghi e pretesti per non battersi, per giustificare prima l’inerzia e poi la subordinazione al nemico. Egli illustrava quella sera, meglio che con un trattato di etica politica, che quando il destino ti mette di fronte al nemico per agguerrito che esso sia non puoi voltare le spalle. Vivere questo imperativo da solo, in una condizione limite, è solo un modo, peraltro molto efficace, di proporla al livello di massa”. Forse quello che ancora più mi colpisce e commuove è la conclusione del ricordo di Foa: “Nel settembre 1945, quando Lussu era ministro nel governo Parri, chi scrive andò a chiedergli, per aiutare finanziariamente il partito di cui entrambi facevano parte, di mettere una firma sotto una autorizzazione, cosa consueta nel sottobosco politico del tempo. Lussu rispose: ‘Compagno, puoi chiedermi di montare a cavallo e andare in via Nazionale a rapinare l’oro della Banca d’Italia e io – per il partito – lo faccio subito. Ma mettere una firma sotto una cartaccia, giammai’. Nell’irrealismo dell’immagine il poeta riusciva a cogliere e giudicare la squallida realtà del mondo in cui ci avvolgevamo e ad avanzare, almeno come ipotesi, un mondo diverso”.
(Le due immagini raffigurano parte di una lettera di Joyce Lussu, scritta anche a nome di Emilio, a Aldo Capitini, fondatore del Movimento Nonviolento)