Anche per loro il 16 dicembre scorso Marta Cartabia, Ministro della Giustizia, Lia Sacerdote, Presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus, e Carla Garlatti, Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, hanno rinnovato la “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” sottoscritta per la prima volta nel 2016 e ancora unica in Europa.
La Carta si occupa dei minorenni che hanno almeno un genitore detenuto o di quelli che nei primissimi anni di vita si trovano in detenzione insieme alla madre, un numero – questi ultimi – in continua diminuzione (19 con 17 madri a fine 2021; due anni prima erano 48 con 44 madri) e auspicabilmente destinato ad azzerarsi con l’istituzione di strutture apposite.
Quanto agli altri, nel solo 2021, al 30 novembre, i colloqui in carcere con almeno un minorenne sono stati più di 280mila. La Carta sollecita su questo la massima attenzione e lo fa con intelligenza, invitando genitori e operatori a farsene carico dal principio, sia nel tempo della detenzione (il primo incontro dovrebbe avvenire entro una settimana dall’arresto, leggiamo, suppongo per tranquillizzare i bambini sul fatto che il genitore sottratto è vivo e sta bene) sia nel tempo interiore, incominciando da quando i colloqui sono pensati, attesi, temuti. Si chiede perciò di predisporre spazi adatti per l’attesa e lo svolgimento degli incontri (Bambinisenzasbarre li chiama “spazi gialli”, un esempio è quello del carcere di San Vittore a Milano) e di accompagnare l’esperienza con momenti individuali e di gruppo per spiegare ai bambini la realtà del carcere, mostrarla per quanto possibile (ad esempio portandoli in visita nel refettorio o negli spazi dedicati ai laboratori), rispondere alle loro domande con un linguaggio adatto all’età e strumenti comunicativi dedicati, accogliere le paure dei piccoli, integrare le visite con videochiamate per mantenere il contatto.
La raccomandazione comprende un intervento analogo e parallelo con i genitori in carcere, che individualmente o in gruppo sarebbe bene ragionassero sulla loro relazione con i figli, su come questa può essere condizionata dalla detenzione, su quale esempio e quale messaggio desiderano trasmettere, che tipo di futuro si impegnano a costruire.
La Carta entra nel concreto, ad esempio sottolineando che i permessi ai detenuti per incontrare i figli non dovrebbero essere considerati premi agli adulti ma diritti dei bambini. Tra le ragioni per concedere le uscite dovrebbero esserci il primo giorno di scuola, i compleanni, i ricoveri, le tappe importanti della crescita perché possano essere condivise. Un interrogarsi incessante per far sì che la detenzione limiti la relazione genitore-figlio nella misura minima indispensabile.
Penso ai colloqui mancati, quelli che non avvengono perché il genitore in carcere non vuole farsi vedere in quella condizione, o i figli non se la sentono, oppure l’altro genitore o i familiari o gli operatori li sconsigliano. Un accompagnamento ben fatto, come la Carta richiede, schiuderebbe le porte per tanti più bambini e ragazzi in modo non traumatico.
Ritengo importante la costituzione di un gruppo di lavoro tra i firmatari che si riunirà ogni tre messi presso la Garante dell’Infanzia con funzioni di monitoraggio su ciò che si fa e ciò che si può migliorare, come pure la previsione in base alla quale i bambini e le bambine con un genitore in carcere devono essere segnalati alla Procura e poi al Tribunale per i Minorenni perché si rivolga loro un’attenzione specifica. È un richiamo a individualizzare le decisioni per uscire dalla stretta di due luoghi comuni opposti, da un lato l’idea che il carcere non sia luogo adatto ai bambini, dall’altro l’ipotesi che il diritto di mantenere il rapporto con il genitore detenuto valga in assoluto, un diritto che in questi termini assomiglia di più a un dovere.
Sul presupposto che gli incontri in carcere siano sempre opportuni mi è difficile convenire, come sul suo contrario. I “sempre” e i “mai” sono raramente applicabili alle relazioni umane. Meglio chiedersi come, perché, in quale momento, e cercare la risposta più adatta a ogni specifica situazione. Nel bilanciamento è da includere il reato per cui il genitore è in carcere: se è avvenuto in famiglia è possibile che il figlio ne sia stato spettatore o vittima diretta, e il coinvolgimento è ben diverso da quello che si può avere in un reato di furto o di spaccio. A questo si aggiunge l’età dei ragazzi – la minore età attraversa fasi di crescita molteplici e propone esigenze diverse, non è la stessa cosa incontrare il carcere a sei mesi di vita o a sedici anni, neppure lo è la percezione del tempo o della distanza in tempi tanto diversi.
A me pare sia molto necessario predisporre le condizioni affinché gli incontri possano avvenire nel modo più favorevole per la relazione genitore-figlio, senza che il figlio debba percepirli come un obbligo, soprattutto quando è preadolescente o adolescente e ha quindi il diritto di essere ascoltato. I tempi, i modi dell’incontro, dovrebbero essere potenzialmente ampi, ma poi svolgersi nel rispetto dei tempi e dei modi necessari al minorenne, se è vero che si vuol rispondere ai suoi bisogni e non a quelli degli adulti.
Un esempio l’ho visto in questi giorni in “Angele e Tony”, un bel film francese del 2010 che racconta – tra le altre cose – la ricostruzione di un rapporto madre-bambino dopo due anni di detenzione di lei, non sappiamo per quale reato. È quando Angele riesce a mettersi nei panni del figlio e a vederlo come persona – non come dovere paralizzante, neppure come strumento di riscatto – che davvero la sentiamo madre. Proprio allora la relazione col bambino ha una svolta, e sarà lui il primo ad andarla a cercare.
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