Il Parlamento pressoché unanime, nessun voto contrario – sette astensioni alla Camera e una al Senato – ha approvato l’Istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini. Ne ha fissato la data al 26 gennaio “al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale”. Si celebra l’eroismo – valore, coraggio straordinario – concretato in atto eroico: la sola battaglia vittoriosa della campagna di Russia. Permette infatti di rompere l’accerchiamento e completare la ritirata ai sopravvissuti. È iniziata 10 giorni prima e, alla sua vigilia, si sono massacrati 30 prigionieri, d’impaccio nella fuga, immagino.
La battaglia è una vittoria. Vale la pena guardarla un po’ più da vicino. Il 16 gennaio 1943, giorno della ritirata, il Corpo d’Armata Alpino conta 61.155 uomini. Dopo la battaglia di Nikolaevka, i superstiti sono 13.420 più 7.500 feriti o congelati. Gli altri sono morti, prigionieri, dispersi. Nessun dubbio sulla sofferenza di tutti, sul valore di molti, ma è opportuna la data scelta, senza sottolineare neppure che si tratta dell’uscita cruenta dall’invasione fascista e nazista dell’U.R.S.S.? Sull’inopportunità, per usare un eufemismo si sofferma una nota di tre storici.
Incredibilmente, la motivazione prosegue: oltre a conservare la memoria ha il fine “di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”. È la cosa migliore ricordare la proditoria aggressione a un altro popolo per promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”? Una motivazione putiniana, per stare all’attualità! Chissà a quale sovranità fa riferimento il testo delirante: non quella dell’art. 1 della Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro e non sulla guerra – L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione – men che meno a quella dell’art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Quanto all’interessa nazionale non ne trovo traccia nella nostra Costituzione. In ogni caso di quale interesse nazionale si tratta?
La motivazione prosegue per la promozione “dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano”. Non hanno atteso infatti una giornata a loro dedicata gli alpini dell’Associazione nazionale per costruire nel luogo della battaglia di Nikolajewka e donare alla popolazione il ”Ponte degli Alpini per l’amicizia”, nel settembre del 2018. Già nel 1993 l’Asilo del Sorriso è donato dagli Alpini alla popolazione di Rossosch, già sede del Comando del Corpo d’Armata e luogo della ricordata strage di prigionieri alla vigilia della ritirata. Si può comprendere che chi ha vissuto quelle vicende veda in quella data la speranza, dopo tante sofferenze, del ritorno a casa, di una risposta positiva alla domanda rivolta al sergente Rigoni Stern “Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”, ma la data non è per reduci ultracentenari. Loro non ne hanno certo bisogno. È per tutti, per i giovani in particolare. Sarebbe opportuno spostarla o almeno variare la motivazione. Non sta a me scriverla ma dovrebbe dire del dolore e dei lutti che accompagnano il por termine a un’aggressione, del coraggio che occorre per ripudiare la guerra alla quale si è stati trascinati dalla dittatura.
Così com’è, se Mattarella fa tanto di leggerla, non è promulgabile. È un’offesa in primo luogo agli alpini che vorrebbe onorare. Anche l’art. 2 della legge non è granché. Sembra ispirato da Kirill. All’art. 4 si parla delle scuole. Buona idea per proporre la lettura di buoni libri. “Con me e con gli alpini” di Piero Jahier sulla prima guerra mondiale, ad esempio. Non certo “Il piccolo alpino”, da me, inconsapevole, letto e riletto in terza elementare, opera deleteria, altre sono state anche peggio, del fascistissimo Savator Gotta.
Per restare alla campagna di Russia dell’ultima guerra c’è il “Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern. Siamo all’epilogo e c’è un incontro in un’isba. “Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. “Mnié khocetsia iestj” – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. “Spaziba”– dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. “Pasausta”– mi risponde con semplicità…. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti… Se questo è successo una volta potrà tronare a succedere: Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”. Rigoni Stern non aderisce alla Repubblica sociale. Dal campo di prigionia in Germania rientra a casa a piedi, traversando le Alpi, il 5 maggio del ’45.
Tutti i libri di Nuto Revelli meritano di essere letti. Nella vicenda che la legge vuole celebrare si è guadagnato una medaglia d’argento: “Comandante di reparto mascheramenti, assolveva brillantemente il difficile compito affidatogli. Partecipava poi col suo reparto a una durissima azione di avanguardie contro nemico superiore in forze, tenace e aggressivo. Ferito gravemente il comandante della compagnia, lo sostituiva dirigendo l’azione in corso con rara perizia, sotto intenso fuoco nemico che gli provocava durissime perdite, costringendo l’avversario a ripiegare. Costante esempio di altissime virtù militari e di grande valore personale. Belagorj-Nikitowka (Russia), 17-26 gennaio 1943”. Un’altra l’aveva già presa prima. Una ancora l’avrà come comandante partigiano. Suo è anche il testo di “Pietà l’è morta”, che riassume il passaggio da alpino a partigiano. È sull’aria di una canzone di alpini, che inizia così “Sul ponte di Perati/ bandiera nera/ l’è il lutto degli Alpini/ che va a la guera”. Perati è un villaggio albanese alla frontiera. La varcano gli alpini inviati alla fine del ’40 a “spezzare le reni alla Grecia”. Il lutto degli Alpini è anche nostro. Va rispettato. Ai ragazzi, che Nuto ama incontrare, racconta: “nell’estate del 1942, duecento lunghe tradotte avevano portato il corpo d’armata alpino sul fronte russo. Nella primavera del 1943 bastarono diciassette brevi tradotte per riportare in Italia i superstiti, i fortunati”.
Si può aggiungere “Con l’Armata italiana in Russia” di Giusto Tolloy: un diario di guerra di un maggiore dello Stato Maggiore sul fronte russo nel 1941-‘43. L’autore tornato in Italia, a capo di una formazione antifascista, lo diffonde battuto a macchina e ciclostilato. Prima dell’edizione del dopoguerra è pure stampato clandestinamente, a Milano in mille copie, firmato Mario Tarchi, con indicazione Livorno 1944. Insomma da leggere, da studiare ce n’è. Un po’ possono farlo anche i deputati. Forse a loro è già parso un atto di pace togliersi l’elmetto, che idealmente indossano, per il più simpatico – sono d’accordo – cappello d’alpino. Orsù onorevoli ancora uno sforzo. Rimediate al malfatto.
(Foto di Giulia Ghiotto da Pixabay)