Gabriella Falcicchio, attivista del Movimento Nonviolento, pedagogista e formatrice che si occupa del pensiero nonviolento, ha scritto per il sito direfareinsegnare.education una riflessione su come affrontare il tema della guerra avendo cura di rispettare l’aspetto emotivo di bambini e ragazzi. In accordo con Gabriella e con la redazione del sito direfareinsegnare.education (che ringraziamo) lo condividiamo anche qui.
In questi giorni in cui il tema della guerra sta incalzando sui media, gli educatori e i genitori si chiedono: è opportuno parlare della guerra ai bambini? E se sì, in che modalità, anche sulla base della loro età? Può essere opportuno o meno, dipende dalle situazioni. Partiamo dall’idea che dovremmo evitare di esporre i bambini, soprattutto sotto i 12 anni circa, a immagini cruente (di guerra e non), perché l’impatto emotivo rischia di investire in modo violento la loro persona in formazione: non hanno ancora consolidato la struttura portante della loro impalcatura e non è giusto scuotere questo edificio in costruzione in modo così pesante.
Occorre quindi essere vigili rispetto ai nostri automatismi (come accendere la televisione in loro presenza) e al rischio che i bambini possano, altrove o in altro modo (vedi i social), venire a contatto con immagini e notizie che non sono in grado di reggere, di interpretare, di elaborare. Per molti adulti, l’esposizione a quelle immagini, inopportunamente sbattute in faccia sui media e spesso senza neppure rispetto per le vittime sul luogo del conflitto, risulta insostenibile: figuriamoci per chi è ancora “in germoglio”. L’intento è dunque proteggerli dall’urto di una violenza sempre incomprensibile, non tenendoli però in una campana di vetro. Potrebbe infatti comunque vedere immagini di guerra o sentirne parlare: respirano il clima emotivo tra gli adulti, intercettano, captano. Che fare allora?
Innanzitutto è necessario che gli adulti si fermino a osservare i bambini, ascoltino le loro espressioni emotive, siano presenti e facciano il lavoro essenziale di comprendere i loro bisogni, senza anticipare, ma restando al loro fianco all’occorrenza. Questo significa accogliere le loro domande, se ce ne sono, e rispondere loro nel modo più onesto possibile. Anche dichiarando il proprio non sapere davanti all’enormità della guerra.
I bambini (e anche i ragazzi) hanno bisogno di chiarezza, una chiarezza che può essere dolorosa ma che è pur sempre più utile che brancolare nel buio o nella penombra di ipotesi, fantasie e paure che la loro mente – in virtù del pensiero magico che la abita – è propensa a costruire quando non ha adeguati elementi o la maturazione sufficiente per agganciarsi alla realtà. Sarà nostro impegno porgere quella chiarezza in modo delicato, adeguato a quel singolo essere umano e alla situazione.
La fascia di età fa senz’altro una notevole differenza. Con preadolescenti e adolescenti il discorso sulla guerra si fa più complesso: è possibile un’informazione più accurata e dettagliata (e qui sarà opportuno che genitori e docenti sappiano offrirne di qualità nel marasma del cattivo giornalismo), ma l’aspetto emotivo-affettivo va curato con la stessa delicatezza. I ragazzi e le ragazze vivono sentimenti a tinte forti, che possono essere di rifiuto e negazione come di rabbia e aggressività. Vanno accolti e compresi: vedere con maggiore lucidità gli eventi del mondo comporta una sofferenza altrettanto maggiore e per loro può essere molto sconfortante (e anche disperante) rendersi conto dell’orrore non più solo raccontato sui libri di scuola, ma in azione a poche migliaia di km da casa.
Si può riflettere su due elementi sempre validi:
- Il primo è il riconoscimento delle emozioni che stanno provando il bambino o la bambina, il rispecchiamento empatico, che ha il potere di rassicurare della presenza adulta (stiamo dicendo: “ti comprendo e non sei solo/a in questa preoccupazione, la attraversiamo insieme”). È chiaro che per poter offrire presenza, è necessario che noi abbiamo fatto i conti con il nostro vissuto emotivo legato all’evento che ci turba, affinché – pur restando nella nostra umanità coinvolta e partecipe del dolore di chi è in guerra – non riversiamo sui bambini le nostre paure, le nostre ansie e angosce. Non si tratta di negarle o far finta che non esistano, ma di metabolizzarle, magari in gruppo, in associazioni, con la guida di una persona competente, se necessario, invece che in solitaria.
- Il secondo elemento può essere affrontare le paure di tutti, grandi e piccoli, con atteggiamento proattivo: la guerra getta infatti addosso a tutti noi “spettatori” della violenza un doloroso sentimento di impotenza. Aldo Capitini ci ricorda che i bambini hanno bisogno di “occasioni di amore”, di agire nella realtà, e che si rallegrano quando possono dare un contributo positivo. Ecco, cogliamo questa grande opportunità per chiederci cosa possiamo fare coinvolgendo i nostri bambini e ragazzi, come possiamo agire in questa realtà, adesso, cos’è in nostro potere. Aiutare le vittime, contribuire ai soccorsi, allestire occasioni di contatto e scambio con altri bambini ucraini e russi (perché le nostre scuole ospitavano già da prima entrambe le nazionalità), scrivere lettere: i modi di un’azione costruttiva sono moltissimi e tutti da inventare. Sapere di poter intervenire in qualche modo rompe l’angoscia dell’impotenza e apre strade di pace nel piccolo raggio in cui operiamo.