Mi ero preparato con alcune riletture alla partecipazione alla straordinaria manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma. Per esempio, avevo ripreso in mano il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che ricostruisce come tutti coloro che nel 1914 avevano le leve del potere e dell’informazione si muovevano come sonnambuli, apparentemente vigili ma incapaci di vedere che stavano conducendo il mondo nel baratro della “grande guerra”, quella che papa Benedetto XV avrebbe definito “l’inutile strage”.
Di cui giusto il giorno precedente alla manifestazione – il 4 novembre – era stata celebrata la fine ancora come una festa della vittoria, anziché un lutto per i 16 milioni di morti e per tutte le tragedie che ne sono conseguite. Un’analoga epidemia di sonnambulismo – o di cecità (“ciechi che, pur vedendo, non vedono”), per citare Josè Saramago – sembra attraversare anche oggi i decisori e i media occidentali rispetto alla guerra in Ucraina, a giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi e dalle posizioni che sono state ossessivamente veicolate dalla maggior parte dei mezzi di informazione in questi otto mesi di guerra. Almeno nell’asfittica bolla informativa italiana.
Utopisti a rovescio
Decisioni e posizioni non all’altezza della situazione, perché prive di consapevolezza rispetto alla “situazione atomica” nella quale siamo totalmente immersi, ma rispetto alla quale ci troviamo nella condizione degli “utopisti al rovescio”, secondo la definizione che ne ha dato il filosofo Günther Anders ne Le Tesi sull’età atomica – ecco un’altra rilettura preparatoria -ossia “mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto”. Siamo incapaci di superare lo ”scarto prometeico”, la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari che incombono sull’umanità e la capacità di generare pensieri, azioni e discorsi pubblici che si posizionino a quel livello di consapevolezza e responsabilità. E se queste definizioni di Anders erano vere nel 1960, anno di pubblicazione delle “Tesi”, quando la coscienza del pericolo della bomba atomica era ancora presente e diffusa, sono incomparabilmente più vere oggi che si è persa memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki. E il discorso pubblico continua, sostanzialmente, a rimuovere il tema e le azioni che ne dovrebbero essere conseguenti, nonostante le minacce di uso dell’atomica non siano mai state tanto evocate tra le opzioni possibili quanto in questa fase della guerra in Ucraina.
Un’assemblea itinerante
Lo ha spiegato anche lo storico Daniel Immerwahr su The Guardian (riportato da Internazionale del 21-27 ottobre del 2022): “Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. E lo stiamo facendo proprio quando chi ha assistito agli orrori della guerra atomica si avvicina ai novant’anni o li ha superati. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze”. Sono andato dunque alla Manifestazione organizzata dal cartello Stopthewarnow a Roma perché si preannunciava, ed è stato, un incontro di donne e uomini di buona volontà, una partecipatissima Assemblea itinerante del popolo della pace – come Aldo Capitini aveva definito efficacemente la Marcia della pace del 1961, in un altro momento di grave crisi per l’umanità – pienamente consapevole della posta in gioco nella guerra in Ucraina e responsabile nella proposta delle azioni da mettere in campo. Dove le parole scritte negli striscioni, nei cartelli, sui passeggini; pronunciate nei canti, negli slogan, nei discorsi dal palco erano – finalmente – all’altezza della situazione atomica che ipoteca, mai come prima d’ora, il presente e il futuro.
Equivicinanza e complessità
Eppure, nonostante la chiarezza del discorso pubblico dispiegato e la gravità preoccupata delle parole di tutte e di tutti, molti giornalisti presenti hanno fatto ancora fatica ad uscire dalla logica binaria e militarizzata che ha contraddistinto la narrazione di questa nuova guerra nel cuore dell’Europa. E ne sono prova molti dei resoconti del giorno seguente, dove la lettura politicista dei posizionamenti dei partiti ha di gran lunga sovrastato – nei servizi distorsivi della realtà – la chiarezza e limpidezza delle parole corali. A me personalmente è stato chiesto a bruciapelo da un giornalista di Rai 3 – di fronte al grande striscione della nonviolenza, con lo storico simbolo delle mani che spezzano un fucile – se “nonviolenza è equidistanza”. Annullando (o ignorando?) nella semplificazione della domanda oltre un secolo di lotte e di pratiche nonviolente dalla parte degli oppressi di tutto il mondo, ma nel rifiuto della logica dell’escalation della violenza. Ho risposto che, semmai, nonviolenza è equivicinanza. Equivicinanza alle vittime di tutte le guerre, ai disertori di tutti gli eserciti – a cominciare dagli obiettori di coscienza russi e dai pacifisti ucraini – ai costruttori di pace di tutte le parti in conflitto. E che noi eravamo lì a ribadirlo, senza alcuna semplificazione, ma chiedendo su questo un impegno attivo del nostro paese e dell’Unione Europea per far cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, abolire le armi nucleari. Del cui minacciato uso la prima vittima sarebbe proprio il martoriato popolo ucraino, come nessuno ha il coraggio di esplicitare fino in fondo, potenziale agnello sacrificale di un confronto tra potenze nucleari. Evidentemente un ragionamento troppo complesso per i tempi televisivi, che a sera hanno tagliato tutto tranne il frammento iniziale
Tra vent’anni
Ho pensato che l’ultima volta che avevo partecipato ad una grande manifestazione per la pace a Roma era stato il 15 febbraio del 2003, contro la guerra in Iraq. Allora non fummo ascoltati e il nostro paese partecipò, ripudiando la Costituzione, a quella guerra per “esportare la democrazia”: chi era contrario allora era un “amico di Saddam”. Solo ora tutti riconoscono che noi avevamo ragione. Il 5 novembre 2022 abbiamo manifestato ancora a Roma, affinché tra vent’anni possa esserci ancora qualcuno – anziché il nulla post atomico – che riconosca le nostre ragioni e le nostre parole di oggi. Consapevoli e responsabili.