• 23 Dicembre 2024 22:02

Rwanda, trent’anni dopo il genocidio – II parte

DiElena Buccoliero

Apr 24, 2024

Quando nel giugno 1994 si conclude il genocidio dei tutsi, il Rwanda è stravolto. Sono morte tra le 800mila e un milione di persone, massacrate soprattutto con machete e bastoni chiodati. Tra loro ci sono prevalentemente tutsi, ma anche hutu dissenzienti e membri di altre minoranze. E sono in gran parte uomini. Per questo, secondo stime Onu, in quel momento le donne rappresentano il 60-70% della popolazione. Tocca a loro, quindi, riprendere in mano il Paese.

È un compito non facile: 250mila donne sono state stuprate e moltissime sono rimaste incinte a causa della violenza. Inoltre, tra loro, si stima che il 70% abbia contratto il virus HIV+ e tante lo abbiano trasmesso al feto, anche perché non hanno avuto accesso a cure che potessero evitarlo. A questo va a sommarsi l’abbandono dei “figli del nemico”, il rifiuto delle donne violentate e dei loro bambini da parte delle famiglie, i suicidi, i problemi psichici…

Nonostante tutto questo, c’è chi è capace di tramutare la sofferenza in forza. Il volto più noto, a giusta ragione un simbolo della tensione verso la rinascita, è quello di Godeliève Mukasarasi.

Godeliève Mukasarasi per la giustizia, il soccorso, la riconciliazione

Godeliève, nata nel 1956, assistente sociale, è una hutu ma ha sposato un tutsi, Emmanuel Rudasingwa, e con lui si è trasferita nel villaggio di Taba, che sarà uno dei più straziati.

In quei giorni la milizia paramilitare Interahamwe stupra e uccide centinaia di tutsi. Godeliève ed Emmanuel non sono risparmiati: la loro figlia viene violentata.

Già nel dicembre 1994, con il supporto del marito, Godeliève propone momenti di incontro tra le donne per parlare di quanto è accaduto, per uscire dalla vergogna e dalla paralisi. «In quel primo incontro nel dicembre 1994 abbiamo creato uno spazio protetto in cui alcune vedove hanno avuto la possibilità di parlare e di confrontarsi, ma anche di aiutarsi reciprocamente a rielaborare il trauma e ad andare avanti», ha raccontato in una recente intervista al quotidiano Avvenire.

I bisogni cui rispondere sono molti e concreti. In questo la fondatrice è aiutata dall’esperienza professionale. Prima di tutto occorre organizzare l’assistenza medica e psicologica per le donne vittime di violenza, ma il supporto psicologico e finanziario viene rivolto a tutte le vedove del genocidio, incluse le mogli degli autori delle violenze.

Nel 1996 Godeliève ed Emmanuel sono pronti a deporre dinanzi al Tribunale penale internazionale per il Rwanda (ICTR) contro il loro sindaco, Akayesu, che nel frattempo è stato arrestato in Zambia. La ritorsione non si fa aspettare. Emmanuel e la figlia vengono uccisi e Godeliève minacciata. Il dolore non la ferma: sceglie ugualmente di testimoniare e convince altre quattro persone a farlo. Anche grazie al loro coraggio, il 2 ottobre 1998 Akayesu viene condannato all’ergastolo come responsabile di nove reati (sui quindici contestati), tra cui genocidio e istigazione al genocidio. Una sentenza che per la prima volta applica la Convenzione del 1948 per la prevenzione e la punizione di questo crimine, e riconosce lo stupro e la violenza sessuale, mirati a distruggere un particolare gruppo, come forma di genocidio.

Il progetto di Godeliève prende forma nel tempo e continua tutt’ora con l’associazione Sevota, ormai una rete cui afferiscono 80 associazioni e oltre 2.000 membri. Insieme hanno assistito e accompagnato più di 70mila persone. Tra le iniziative spiccano i gruppi di mutuo-aiuto, la formazione e l’accompagnamento al lavoro per promuovere l’indipendenza delle donne vittime di violenza, il microcredito, la nascita di cooperative agricole e artigianali, la vicinanza agli anziani soli, il sostegno agli orfani e ai giovani in termini di supporto psicologico dopo il trauma ma anche attraverso progetti di educazione alla cittadinanza, formazione al lavoro e alla partecipazione, affinché l’odio seminato dal genocidio non generi ulteriore violenza.

Nel programma di Sevota non mancano le iniziative per la pace e la nonviolenza, che in Rwanda significa impegnarsi per la riconciliazione coinvolgendo la comunità, le istituzioni civili e religiose e, quando è possibile, anche gli autori del genocidio che nel frattempo hanno scontato la pena. «Alcuni di loro erano giovanissimi al tempo dei massacri e sono rimasti loro stessi traumatizzati da quello che hanno fatto», dice ancora Godeliève ad Avvenire. «È importante integrarli nel processo di riconciliazione in un contesto di giustizia e verità. Non bisogna smettere di lavorare per la pace affinché tutti i ruandesi si sentano davvero fratelli».

Per il suo coraggio, Godeliève Mukasarasi ha ricevuto lo Human Rights International Award nel 2011 e l’International Women of Courage Award nel 2018. È presente tra i “Giusti” della Shoah e degli altri genocidi nei Giardini dei Giusti a Milano, Pioltello e Rezzato e, nel maggio 2023, è stata insignita di un dottorato alla Texas Christian University.

Aurèlie Uwimana

Il corposo dossier sul trentennale del genocidio in Rwanda presente nella rivista online RFI presenta, tra le altre, anche un’altra figura di particolare interesse, quella di Aurèlie Uwimana, il cui ruolo è molto simile a quello di una mediatrice penale.

Ormai tanti autori di violenza nel genocidio sono stati scarcerati e sono tornati ai loro villaggi dove non di rado abitano ancora i familiari delle persone che loro hanno ucciso o violentato. RFI riporta la testimonianza di uno di questi. Innocent Gatanazi, 65 anni, dopo 8 anni in carcere e 4 di servizio alla comunità è tornato a casa. «In prigione avevo gli incubi», racconta. «Mi sono detto che nessuno mi avrebbe perdonato. Avevo paura che le persone che avevo tradito uccidendo i loro cari si vendicassero e mi uccidessero. Una volta fuori, anche libero, sognavo la prigione. Quando ho incontrato una sopravvissuta, mi sono detto: Oh no, mi ha visto, probabilmente sta pensando a quello che ho fatto. Mvura Nkuvure mi ha aiutato».

Mvura Nkure significa “Tu ti prendi cura di me, io mi prendo cura di te”. È un programma portato avanti da diverse organizzazioni, tra cui la ONG Interpeace, che ha scelto Aurèlie Uwimana per guidare uno dei gruppi di lavoro, la cellula di Musovu. Aurèlie si relaziona con autori e vittime di violenza e, quando è possibile, li prepara a un incontro che, senza cancellare la sofferenza, si rivela fonte di sollievo per entrambi.

«Quando Gatanazi è uscito di prigione era come se fosse entrato in un’altra prigione», ricorda Aurèlie. «Viveva da recluso perché i vicini sapevano che aveva ucciso durante il genocidio. All’inizio nessuno può guardare al futuro. Che si tratti di ex detenuti o sopravvissuti. È un processo lungo. I sopravvissuti, quando si rendono conto che si sentono meglio, dicono agli altri di partecipare. Coloro che hanno commesso il genocidio, in un primo momento, pensano che l’invito al gruppo sia una trappola per arrestarli nuovamente. Ma anche loro, quando vedono che aiuta, ne parlano con gli altri e ci chiedono di creare altri gruppi».

È in questo contesto che Gatanazi si è trovato faccia a faccia con Françoise Mukaremera, di cui lui ha ucciso la sorellina di 5 anni nel 1994. «Quando ho visto Gatanazi, ho avuto molta paura. Pensavo che fosse lì per uccidermi», spiega Françoise. «Dopo una prima seduta, una seconda, una terza, una quarta… piano piano mi sono calmata. (…) Gli ho chiesto: È vero che hai ucciso mia sorella? Ha detto di sì. Disse. Mi ha chiesto perdono. Dopo diversi incontri, gli ho detto che ci avevo pensato, che avevo trovato il modo di conviverci».

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.