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Saperi, esperienze e pratiche che tutelano la vita

Diadmin

Ago 28, 2018

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’esigenza di trovare un nuovo mercato per le sperimentazioni dell’industria bellica ha stimolato una trasformazione radicale dell’agricoltura su scala mondiale attraverso la cosiddetta Rivoluzione Verde. Le prime ricerche sugli erbicidi, infatti, erano state promosse con l’obiettivo di danneggiare le coltivazioni delle popolazioni nemiche e vennero usate per la prima volta a scopo militare nella guerra del Vietnam: l’Agente Arancio fu irrorato su migliaia di villaggi, causando problemi di salute gravissimi, che persistono sino ad oggi. Gli erbicidi, tuttavia, incontrarono un vasto uso soprattutto in agricoltura, all’interno di un pacchetto tecnologico che comprende anche semi ibridi, fertilizzanti chimici, insetticidi e macchinari. Tra gli anni ’50 e ’70, grazie a politiche pubbliche e interventi governativi, questo pacchetto è stato introdotto in tutto il mondo e soprattutto nei paesi del Sud globale. Gli effetti mortiferi della Rivoluzione Verde non hanno tardato a manifestarsi sul piano ambientale e sociale: esodo rurale, concentrazione della terra, crescita dei monopoli sulla produzione di alimenti, inquinamento, erosione dei suoli, desertificazione, presenza di contaminanti chimici nella catena alimentare, perdita della biodiversità, aumento della dipendenza dal mercato da parte delle comunità contadine.

Il pensiero decoloniale, un approccio interdisciplinare elaborato in America Latina a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, offre degli strumenti concettuali molto interessanti per pensare criticamente la Rivoluzione Verde. Per le pensatrici e i pensatori decoloniali, la colonialità va distinta dal colonialismo poiché è un modello di potere tuttora operante, che attraversa molteplici sfere dell’esistenza. La colonialità del sapere, per esempio, indica una forma radicale e duratura di violenza, prodotta attraverso l’imposizione dell’eurocentrismo come ordine esclusivo di pensiero e l’estromissione di altre razionalità. Inoltre rivela la penetrazione della colonialità nelle prospettive epistemologiche, scientifiche e disciplinari.

La Rivoluzione Verde è stata un’espressione della colonialità del sapere da diversi punti di vista.

  • Innanzitutto ha stigmatizzato e messo al bando esperienze e pratiche agricole che per millenni hanno garantito la sopravvivenza dell’umanità. I saperi dei contadini e soprattutto delle contadine sono stati ridotti a un patrimonio di tradizioni primitive, destinate inevitabilmente a scomparire con la marcia del progresso. Queste svalutazioni sono state interiorizzate dagli stessi agricoltori che, almeno in un primo momento, hanno aderito entusiasticamente a misure che promettevano facili profitti e il superamento della fame nel mondo.
  • Inoltre, in nome dell’esportazione di un modello di prosperità occidentale, ha conferito alla parte del mondo giudicata “sviluppata” la missione di “sviluppare” i “sottosviluppati”, affermando lo sfruttamento rapace della natura e l’assoggettamento delle persone come costi inevitabili della modernizzazione.
  • Infine, in un’ottica distorta e imprudente, ha prescritto una sospensione generale del giudizio nei confronti della Scienza, che doveva essere accettata senza porre nessun interrogativo sulla sua utilità sociale e sugli interessi in essa in gioco. A questo proposito vale la pena menzionare la recente inchiesta di Le Monde sul finanziamento da parte della Monsanto di articoli mendaci su prestigiose riviste scientifiche, per smentire gli effetti sulla salute del glifosate, che nel 2015 è stato riconosciuto dall’OMS come potenzialmente cancerogeno. Il glifosate, infatti, è il principio attivo del Roundup, il diserbante più usato al mondo, al quale la Monsanto deve la sua fortuna.

Contemporaneamente al consolidamento della Rivoluzione Verde sono andate sorgendo delle alternative. L’agroecologia si è affermata soprattutto in America Latina come un riferimento teorico-operativo fondamentale, profondamente radicato nelle pratiche dei movimenti contadini. Per esempio nella Via Campesina, la più importante rete internazionale di organizzazioni contadine, la lotta per l’agroecologia è centrale e si accompagna alla valorizzazione politica della categoria “contadino”. L’uso di questo termine, infatti, identifica una produzione di alimenti critica verso il modello neoliberista di agricoltura, perché orientata anzitutto alla sicurezza e alla sovranità alimentare. In Brasile, dove la discussione sull’agroecologia è molto vivace, è sorta nel 2002 l’Articolazione Nazionale di Agroecologia (ANA), allo scopo di mettere in dialogo le diverse organizzazioni impegnate su questo terreno per esercitare una comune pressione sulle direzioni dello sviluppo agricolo. Più circoscritta a livello territoriale, ma ugualmente significativa, è la rete Ecovida del Sud del Brasile. La sua attività principale è la certificazione partecipativa, un processo pedagogico basato sulla collaborazione solidale tra gli attori sociali coinvolti nella produzione, nel consumo e nella distribuzione degli alimenti.

All’interno di queste reti si muove il Movimento di Donne Contadine (MMC) – un movimento nazionale sorto nel 2004 grazie a esperienze decennali maturate in diverse regioni del Brasile – a partire da una prospettiva originale, che articola agroecologia e femminismo. Nel MMC l’agroecologia è uno stile di vita che impegna profondamente le donne che vi partecipano e allo stesso tempo punta a generare delle trasformazioni nella realtà. Questo processo trasformativo ha rilevanti conseguenze anche sul piano educativo ed epistemico. Un aspetto significativo, infatti, è che nelle diverse pratiche in cui si snoda la proposta agroecologica del MMC i saperi delle donne sono assunti come un punto di riferimento imprescindibile. Per esempio l’autoproduzione di semi contadini di ortaggi, che tra le pratiche agroecologiche del movimento riveste un’importanza cruciale, si fonda sulla valorizzazione del lavoro misconosciuto delle contadine, che per millenni hanno provveduto all’alimentazione dell’umanità selezionando, scambiando e migliorando i semi di anno in anno. Fare leva su questa pratica significa riconoscere la centralità di competenze femminili che, già svalutate o date per scontate, sono state ulteriormente marginalizzate dalla Rivoluzione Verde e dal suo imperativo di dirigere le energie alla produzione finalizzata al profitto. Inoltre il riconoscimento di queste esperienze si accompagna a una loro risignificazione in chiave politica. Il recupero dei semi contadini, infatti, non mira solamente ad assicurare l’alimentazione familiare ma origina anche dalla consapevolezza della necessità di restituire i semi, primo anello della catena alimentare, al controllo diffuso delle comunità contadine, sottraendoli al monopolio delle multinazionali. In questo senso, la posta in gioco di questa pratica è decoloniale poiché decostruisce il pensiero bipartito che, soprattutto a partire dalla modernità, ha diviso il mondo in due sfere: una superiore e simbolicamente maschile, associata all’ambiente pubblico e alla politica, finalizzata alla produzione e al guadagno; l’altra inferiore e simbolicamente femminile, confinata nell’ambiente domestico e nel prepolitico, dedita alla riproduzione e basata sulla gratuità. Il MMC promuove un disapprendimento di queste dicotomie rimettendo al centro della politica il lavoro necessario alla vita. È importante sottolineare, tuttavia, che la valorizzazione dei saperi delle donne e delle comunità contadine esclusi dalla Rivoluzione Verde non persegue un ritorno all’agricoltura pre-moderna. Piuttosto favorisce un pluralismo epistemologico, fondato su un’interazione non gerarchica tra saperi popolari e conoscenza scientifica, nella quale quest’ultima è letta, problematizzata e trasformata a partire da pratiche che tutelano la vita dell’umanità e del pianeta.

*Università di Verona

(immagine tratta da viagginews.com)

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