La prima voglio ricordarla.
Era il 20 novembre del 2000 – la data mi è familiare, proprio il giorno precedente avevo compiuto trent’anni – quando è iniziato il processo contro Michael Seifert, Misha, il boia del lager di Bolzano. Non lui solo per la verità, l’altro era Otto Sein, ma di Seifert soltanto si erano ritrovate le tracce – in Canada, ci abitava con la moglie e il figlio, amava pescare – e per me quella settimana di udienze, tutte compatte come era stato deciso, è stata un’immersione nel tempo e nelle storie incontrando e intervistando, a margine, i testimoni.
Ero lì per Azione nonviolenta, avevo gioco facile, praticamente nessuna testata nazionale seguiva le udienze. Con lo stesso affetto e intensità ricordo l’arringa del grande Sandro Canestrini, avvocato di parte civile, e gli interrogatori, la requisitoria del meraviglioso pm militare Bartolomeo Costantini. La loro passione per la dignità umana è stata una lezione indimenticabile.
Ritornata a casa ancora abbagliata dall’infinitesimo contatto con tutto quel dolore avevo scritto diversi articoli per la rivista e spiegato tutta la storia (Azione nonvolenta, aprile 2001) ma sentivo che non era abbastanza finché tentai di avventurarmi in una lettura teatrale a quattro voci: due testimoni, una voce fuori campo che riporta alla storia, la cronista del processo di oggi che poi ero io. Nel giustapporsi di sguardi tutti portati al presente c’era il desiderio di affermare la contemporaneità dei fatti, non per dire che quello che è accaduto può ancora succedere ma per dire che nella vita di chi li aveva vissuti – così almeno mi era parso di vedere negli occhi – quei fatti continuavano ad accadere, Bortolo di appena 17 anni a urlare con il petto squarciato, la donna gravida ad essere violentata e uccisa, ed anche gli sguardi di lui e di lei sfiorarsi alla fonte dai due lati, M-F, del campo. Tutto questo poteva rinnovarsi in un attimo – sovrapposto alle correnti d’aria, ai treni, alle scale salite e scese, sovrapposto alle strette di mano, sovrapposto ai giorni. Che dopotutto è quanto mi pare accada pure a ciascuno di noi con i nostri dolori piccoli e grandi, che sono e continuano ad essere, forse sbiaditi. Quelli seri neppure troppo.
Ricordo che pochi giorni dopo il mio ritorno un’amica insegnante mi chiamò nel suo liceo a raccontare. Con poche premesse scelsi per primo di leggere i capi d’imputazione su cui si era basato il processo e presentai il testo che quattro di loro, lettori, con altri, musicisti, decisero poi di proporre ai compagni il 27 gennaio.
Quella narrazione negli anni è stata ripresa qualche altra volta: altre due a Ferrara, una a Mantova con Arcigay, a Bolzano e a Verona con Aned. Siccome il testo è in rete da qualche parte, neppure posso sapere se è stato usato ancora. Mi piace metterlo a disposizione, insieme agli articoli di quell’Azione nonviolenta, come contributo della nostra associazione. Chi fosse interessato lo può prendere, a leggerlo piano con qualche intermezzo musicale dura una mezzoretta. Se ce lo fa sapere lo ringraziamo.
Leggi qui la versione completa di: “Scusi, signore, ha conosciuto mio padre”
Nell’aula entra un uomo, distinto, di mezza età. Viene ogni giorno e accosta i testimoni. Se lo ricordava bene di quando, bambino, passeggiando con Verona, la sua mano è stata sciolta a forza da quella del papà recluso perché ebreo, a Bolzano e poi a Mauthausen, e mai più ritornato. Perciò ferma quei sopravvissuti sperando di ritrovare una traccia. “Scusi, signore, ha conosciuto mio padre?”.