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Se suo figlio fosse nato dove sono nato io….

DiVincenzo Sanfilippo

Gen 17, 2020

La mia ricerca sulle esperienze di distanziamento dalle culture mafiose si è imbattuta a fine anno 2019 nella singolare storia raccontata dal giudice Elvio Fassone in una delle puntate di “Uomini e Profeti” su Radio 3, che invito tutti ad ascoltare, prima o dopo aver letto il libro “Fine Pena ora” scritto dello stesso magistrato, oggi in pensione, ed edito da Sellerio nel 2015.

La storia è brevemente la seguente: Elvio Fassone presiede la Corte di Assise chiamata celebrare nel 1985 il maxi processo alla mafia catanese, un processo che si svolge a ridosso di quello di Palermo. Tra gli imputati un venticinquenne, Salvatore (nome di fantasia), giovanissimo boss catanese che, nelle prime giornate del processo assume senza esitazione un atteggiamento ostile e provocatorio verso la Corte. L’esigenza di un permesso per visitare la madre morente induce Salvatore a chiedere il permesso al giudice  che presiede la Corte, che, attenendosi alla legge, che prevede un certificato che attesti le condizioni gravissime del congiunto morente, si assume comunque la responsabilità di una concessione. Un permesso che ogni prudenza istituzionale avrebbe evitato.
Mi colpisce lo stile di quest’uomo della giustizia: durante il processo, ad esempio, si intrattiene fuori dall’udienza (la legge non lo vieta) per ascoltare bisogni e necessità degli imputati e dei familiari.
Salvatore rientra in carcere dopo la visita alla madre e, alla successiva udienza, dalla “gabbia” degli imputati, cerca di incontrare lo sguardo del Presidente che, a distanza, interpreta il labiale: «Sono tornato!». Fotogrammi che ciascuno può ben rappresentarsi. Essi sanciscono il nascere di un’amicizia improbabile: quella tra un giudice e l’uomo che egli condannò all’ergastolo.
È in uno di questi incontri che Salvatore chiede al Presidente se abbia dei figli. Fassone risponde che ne ha due di cui uno della sua stessa età. E Salvatore (esternando una riflessione forse non estemporanea ma maturata in quei giorni) gli risponde: «Se suo figlio fosse nato dove sono nato io, adesso lui sarebbe nella gabbia e se io fossi nato al posto di suo figlio oggi sarei un avvocato e magari anche bravo… »
Nell’intervista alla radio, Fassone svela che, finito l’estenuante processo, dopo la clausura della camera di consiglio, durata poco meno di un mese, confida subito alla moglie l’inquietudine per quel ragazzo omicida condannato ad una pena senza fine. Vorrei scrivergli, le disse, esternando al contempo una serie di dubbi legati al suo ruolo istituzionale e all’opportunità di un contatto così inusuale… Ma la moglie del giudice lo sostiene consigliandogli ( vado a memoria…) di non andare per il sottile e fare ciò che lui sentiva fosse giusto fare. Rifletto ora sull’uso della parola “giusto” che per un giudice ha certamente un peso e un significato diverso da quello che ha per un uomo qualsiasi.
L’intuito femminile contribuisce a far proseguire questa singolare relazione che dura da ben ventinove anni. Si sancisce tra i due un patto, implicito, ma fortissimo: il condannato farà di tutto per vivere secondo le regole della civile convivenza, si impegnerà a studiare, lavorare e mantenere la schiena dritta a non rinunciare mai alla propria dignità e alla speranza. Il giudice lo sosterrà umanamente, per quello che può e che sa, anche a distanza. Ambedue le promesse saranno mantenute. Fassone aiuterà Salvatore a districarsi nei pantani burocratici che, dentro il sistema penale, sono molto più crudeli di quanto lo sono per tanti di noi, inclini a lamentarcene continuamente. Salvatore inizia a studiare, consegue la licenza elementare e vari titoli professionali frequentando con caparbietà tutte le occasioni di corsi formazione offerti dal carcere, al termine dei quali invierà soddisfatto copia dell’attestato al suo amico magistrato. Attraversa la stagione del carcere duro, previsto, dopo le stragi del 92, per i mafiosi che non hanno collaborato con la giustizia; arriva alle soglie della semilibertà, si oppone, anche formalmente e con l’aiuto del suo amico-magistrato a quei giudici che motivano i dinieghi “a causa della gravità dei reati commessi”: possono mai i reati che prevedono l’ergastolo non essere “gravi”?
Salvatore è ancora oggi in carcere e sta per arrivare a 40 anni di vita vissuta dietro le sbarre. Avere tentato il suicidio in una sola occasione dopo decine di eventi sfortunati che lo hanno sempre portato al punto di partenza, senza sue responsabilità, a me sembra quasi un miracolo. Ma ancor più esemplare la modalità con cui lo racconta al suo amico: «Caro Presidente, oggi ne ho combinata una delle mie… Mi sono impiccato, le chiedo scusa». Scusa per aver mancato a quell’impegno implicito alla speranza preso con Fassone all’inizio della corrispondenza. La prontezza di una guardia carceraria permetterà a Salvatore di scrivere quest’altra lettera…
Il 9 ottobre 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per i trattamenti disumani riservati a chi viene condannato all’ergastolo ostativo, soprattutto in regime di detenzione 41 bis. e la su Sullo stesso tema è intervenuta il 23 ottobre 2019 anche la Corte costituzionale italiana, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4 della legge sull’ordinamento penitenziario, almeno nella parte in cui non prevede la possibilità della concessione di permessi premio anche in assenza di collaborazione.
Sulle due sentenze si sono registrati pareri aspramente critici. In particolare il giudice Gratteri, (al quale va, sia detto a scanso di equivoci grande rispetto per il lavoro per il quale mette quotidianamente a rischio la propria vita) in un’intervista al direttore de “Il Fatto Quotidiano”, Marco Travaglio, ha parlato di «un principio devastante» che «cancellerebbe 150 anni di legislazione antimafia» aggiungendo che «è passata l’idea che puoi commettere qualunque crimine, anche il più abietto, poi alla fine esci di galera». Dello stesso tenore le dichiarazioni della sorella del Giudice Falcone.

Mi permetto di sostenere, con il giudice Fassone, un’idea diversa.
Un’idea di giustizia che, senza perdere il rigore necessario per reati efferati, non rinunci mai ad offrire un volto umano e collaborativo.
La storia narrata da Elvio Fassone è certamente in primo luogo la storia di due singolari umanità. Ma è anche la storia di due coscienze che si lasciano penetrare, l’una dall’altra.
Elvio Fassone testimonia saggezza mitezza lucidità e capacità comunicative fuori dal comune.
Così la capacità di trasformazione interiore e la forza di volontà di Salvatore penso siano caratteristiche umane eccezionali, che nascono in una persona che era stata capace di crimini orrendi.
Ma è possibile trovare un senso che restituisca valore oltre la patina dell’eccezionalità che ricopre la storia narrata?
La storia di Salvatore, la sua incredibile corrispondenza che dura da 31 anni con il giudice che lo condannò all’ergastolo, la sua tenace ricerca di rifarsi una vita sana, la sua buona condotta dentro svariate carceri d’Italia, l’innegabile sofferenza subita dentro questi luoghi, sembrerebbero pareggiare un conto che nessuna equazione matematica potrà mai risolvere fino in fondo.
Ma proviamo anche a tenere in sospeso questa convinzione e chiediamoci ancora: storie come questa non potrebbero forse rivestire una funzione educativa e preventiva per la comunità tutta se narrate direttamente e fuori dal carcere dallo stesso protagonista?
Dal 1999 il Ministero che si occupa degli affari penali non si chiama più Ministero di Grazia e Giustizia, ma Ministero della Giustizia. L’istituto della grazia permane prerogativa del Presidente della Repubblica, ma la scomparsa di quel sostantivo dal nome del Ministero è come se avesse sterilizzato quel sistema da quella dimensione di gratuità e di sguardo umano su un reo pentito (anche se non collaborante).
E mi chiedo ancora se i giudici e gli operatori della giustizia tutti (non solo le professioni sociali che operano all’interno di questi sistemi) possano essere in qualche modo formati a maturare sensibilità e orientamenti, se non uguali a quelli dei protagonisti di questa storia, ugualmente orientati a quella dimensione rieducativa della pena prevista dalla nostra costituzione, quella dimensione rigenerativa che i diamanti sconoscono e di cui il letame è portatore.

La Puntata di Uomini e Profeti su RaiRadio3 a cui ho fatto riferimento è scaricabile qui 

Interessante anche la testimonianza di Fassone al Meeting di Rimini dell’agosto 2017

 

Di Vincenzo Sanfilippo

Svolgo la professione di sociologo nell'ambito di un Dipartimento di Salute Mentale. La mia formazione spirituale e sociale mi hanno portato in gioventù all'obiezione di coscienza e alla nonviolenza. Sono abbonato ad Azione Nonviolenta dal lontano 1975 e non posso che ringraziare questo strumento che ha contribuito alla mia formazione e che, con altri percorsi variegati (scoutismo, studi universitari a Trento, comunità del dissenso cattolico) mi ha portato alla nonviolenza gandhiana e alla Comunità dell'Arca fondata da Lanza del Vasto di cui faccio parte dal ‘95. Con amici palermitani e catanesi abbiamo costituito una Fraternità di cui potete avere notizia visitando il sito http://www.trefinestre.flazio.com/home  

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