E’ un dibattito poco sereno e piuttosto scomposto. C’è chi grida al ritorno del fascismo (in genere attivisti, intellettuali e politici della sinistra-sinistra), chi mette in guardia da un uso semplicistico dell’epiteto fascista (in primo luogo gli storici di professione), chi minimizza e si barcamena e infine chi prova a lucrare consenso politico attorno alle divisioni e alle insofferenze suscitate da ricorrenze simboliche come il 25 aprile.
Buona parte della discussione – diciamolo subito – è viziata da ambiguità e fraintendimenti attorno a parole e concetti. Se la domanda è “Sta tornando il fascismo?” hanno probabilmente ragione gli storici a precisare che sembra assai improbabile il ritorno di un partito unico, di un duce, della censura, di un nazionalismo militarista, insomma dei tratti salienti del fascismo storico. In molti casi, però, l’allarme-fascismo è lanciato per denunciare fenomeni attuali come la xenofobia e il razzismo istituzionali, il neo nazionalismo (chiamato sovranismo), la tentazione autoritaria che sembra sedurre le democrazie: in questo caso gli storici insistono a dire che la nozione di fascismo non aiuta a capire e anzi rischia di impoverire l’analisi; possiamo accogliere anche questa obiezione, a patto di non perdere di vista l’affinità culturale e politica fra questi fenomeni “nuovi” e certe fasi storiche del passato, inclusi i regimi fascisti o autoritari, insomma quella linea di continuità che rende fragili le democrazie europee.
Probabilmente, tuttavia, il punto vero è un altro e riguarda soprattutto l’altro versante della discussione, ossia l’antifascismo. Sia i minimizzatori (quelli che… ma quale ritorno del fascismo), sia i puntigliosi (quelli che… il fascismo storico era un’altra cosa) tendono a concordare sul fatto che anche l’antifascismo è un’ingombrante eredità del passato, ormai in via di esaurimento. L’eclisse dell’antifascismo avrebbe almeno due motivazioni: primo, il tramonto delle ideologie novecentesche, con conseguente “laicizzazione” della politica, non più ancorata alle traumatiche esperienze del “secolo breve”; secondo, quasi tautologico, la inattualità del fascismo (di cui abbiamo detto sopra) renderebbe automaticamente inattuale anche l’antifascismo. Potremmo definire questa visione delle cose anti-antifascismo.
Di tutt’altro avviso sono gli antifascisti-antifascisti: quei militanti, intellettuali, semplici cittadini che si sentono animati dal lascito morale e politico di chi combatté il nazifascismo prima e durante la seconda guerra mondiale. In questi ambienti il rifiuto del 25 aprile, l’attacco ai partigiani, l’insofferenza per la memoria della resistenza sono considerati un’offesa alla democrazia. E’ così che il dibattito sui media e in politica si accende e prosegue di ricorrenza in ricorrenza. Alla minimizzazione e al preteso superamento della frattura fascismo/antifascismo si contrappone la consolidata retorica della resistenza e dell’antifascismo. Sta diventando, questo, un piccolo sport nazionale.
Sono discussioni forse inevitabili, in questa fase storica, ma toccano davvero il cuore della questione? La sensazione è che il dibattito, visto dal lato dell’antifascismo, sia in verità guidato dalla controparte, che ha scelto e definito il terreno del confronto, ossia l’attualità o inattualità dell’antica divisione che portò il nostro paese, fra il ’43 e il ’45, a vivere una guerra civile non dichiarata. L’antifascismo, su questo terreno, gioca sulla difensiva e si trova a ripercorre strade, a ripetere riti, a recuperare slogan magari lodevoli ma destinati a incidere poco in termini politici e culturali.
Ci sarebbe – c’è – un’altra possibilità, che ha come punto di partenza una considerazione: la memoria dell’antifascismo e della resistenza (anzi, delle resistenze) è ancora vitale e preziosa perché costituisce uno dei passaggi più significativi della nostra storia, perché in quel frangente una moltitudine di italiani disse no al potere e trovò la forza e il modo di opporsi, sfuggire, ribellarsi. Ci fu chi si oppose con le armi (le bande partigiane) e chi lo fece senza armi: i renitenti, i disertori, chi nascose ebrei e soldati in fuga, chi disobbedì e chi non collaborò, chi diffuse stampa e informazioni proibite, chi organizzò l’opposizione clandestina, chi sabotò e chi scioperò…
Alla fine è questo il messaggio più importante: l’antifascismo e le resistenze ci parlano perché furono pensiero e azione in direzione contraria alla corrente; furono partecipazione; furono fiducia in sé stessi e nei propri simili; furono autonomia di giudizio e anticonformismo. Ecco perché parliamo di cose attuali. Che lo chiamiamo fascismo o in altro modo, che sia un ritorno del passato in altre forme o un fenomeno del tutto nuovo, stiamo vivendo una fase di svuotamento della politica e di svilimento del senso di cittadinanza. Il potere stimola e chiede passività. Spaventa le persone e le divide, colpisce le minoranze e indica nemici, si propone come garante dello status quo a patto che nessuno disturbi.
Una connessione con il tempo e lo spirito dell’antifascismo e delle resistenze è oggi addirittura indispensabile. Perché a quel tempo gli italiani – o almeno molti italiani – vissero un’esperienza unica e generatrice, in un paese abituato alla sopraffazione dei pochi e alla sottomissione dei molti. Perché abbiamo bisogno di cogliere e rifiutare le mistificazioni, ad esempio quando si additano nemici di comodo: di volta in volta i migranti, i rom, le “élite”, i “radical chic”, i “buonisti”… Perché abbiamo bisogno di smascherare la logica stessa di produzione del nemico, presupposto necessario per affermare fittizie identità minacciate (di solito espresse con locuzioni come “noi”, “prima gli italiani”, “le nostre tradizioni”, “i nostri valori”…)
Perché abbiamo bisogno di resistere all’onda dell’omologazione e di organizzare le resistenze, sia mentali e d’opinione sia fattuali e di azione collettiva. Dobbiamo (re)imparare a disobbedire, a costruire pensieri nuovi, a leggere il mondo con spirito d’uguaglianza e tenendo conto delle lezioni che ci arrivano dal passato. L’antifascismo non è dunque (solo) dichiararsi antifascisti e additare il fascismo altrui, ma pensare e agire nel presente – per fare qualche esempio non casuale – come se le persone fossero tutte libere di muoversi, come se i muri fossero destinati ad essere abbattuti, come se l’uguaglianza fosse un obiettivo per la vita di ogni giorno. Tutto molto radicale, forse inattuale, per i parametri politici correnti. L’antifascismo è oggi per molti un rito, un’affermazione, uno stato d’animo, un moto di indignazione. Troppo poco.
Festeggiare il 25 aprile ha tanto più senso quanto più riusciamo a osare pensieri e azioni di cambiamento, insomma a metterci in sintonia teorica e pratica con un percorso collettivo di giustizia sociale. Che poi è il senso profondo di quel 25 aprile.