Francis Fukuyama aveva predetto La fine della storia nel ’92 e l’ha vista rimettersi in movimento, da ultimo sotto il segno dell’Identità. Nel giugno dello scorso anno, infatti, ha scritto: “Nel mondo che affiora alla fine degli anni Dieci del nostro secolo, l’identità è divenuta il tema unificatore di un gran numero di movimenti nazionalisti e populisti che sono apparsi un po’ dappertutto. Non è soltanto il caso delle nuove democrazie, come l’Ungheria e la Polonia, ma anche di quelle di lunga data, come la Francia e gli Stati Uniti. Nel Vicino Oriente, si può vedere nell’islamismo una variante della medesima affermazione identitaria che fu all’origine del nazionalismo in Europa nel XIX secolo. È reale e inquietante il rischio che le questioni identitarie producano conflitti e instabilità all’interno dei Paesi democratici e tra di loro”. E in un’intervista ha ricordato: “Nel mio libro del 1992, in effetti, cito Donald Trump, presentandolo come un esempio dell’enorme ambizione individuale le cui energie erano state (almeno così sembrava) incanalate nell’imprenditoria in modo sicuro. All’epoca non potevo sapere che questo non gli sarebbe bastato”.
Dal resoconto della Stampa pare che Boeri abbia aggiornato l’analisi affidata, un paio d’anni fa, al pamphlet Populismo e stato sociale. L’analisi si è svolta da Trump alla Brexit, ai Paesi europei guidati da partiti o coalizioni populiste, per giungere al nostro. Al fondo resta la perdita di credibilità della classe dirigente e di uno stato sociale che, nella sua dimensione nazionale, non è in grado di proteggere dai cambiamenti portati dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico. Le bugie più spudorate e gli attacchi più infondati sono quindi rivolti all’Europa e agli immigrati. Si evita così di ricercare le vere cause della situazione. La loro conoscenza sarebbe premessa di possibili soluzioni. La rappresentazione è invece semplice. C’è “il popolo in contrapposizione all’élite con in mezzo il nulla. Un attacco nei confronti della società civile, verso tutto il mondo dell’associazionismo visto con ostilità rispetto all’individualismo, la negazione del pluralismo”.
Su quel “nulla” che starebbe in mezzo Boeri ha concentrato la sua attenzione. “È importante evitare lo spopolamento di ciò che sta in quel mezzo: dobbiamo investire nel capitale sociale, preservare le democrazie. Facciamo campagne per promuovere la responsabilità sociale contro questa visione egoistica e la ferocia dilagante. I partiti populisti, storicamente e anche oggi, compiono un miracolo esclusivamente a favore delle classi più potenti, aumentando il clima d’odio e le ostilità e mettendo tutti contro tutti”.
Questo mi ricorda due elementi. Il primo è la necessità di restituire all’Europa – ce ne vuole di più e non di meno – la funzione per cui è nata, di garante della pace e dei diritti civili, politici, sociali. È la sola in grado di affrontare, a scala adeguata, l’immigrazione, facendone una risorsa per l’economia legale e la convivenza. L’altro aspetto è l’importanza di quello che sta, o dovrebbe stare, in mezzo. Quello che Andrea Caffi chiamava “la società”, in lettere minuscole tra virgolette. Ne ho scritto in un post recente, C’era una volta un socialista così.
È l’insieme dei rapporti umani, spontanei, gratuiti, liberi, affettivi, solidali, alieni da costrizione e violenza. “L’ingiustificata fiducia della ‘società’ nella moderazione dell’uomo cosciente può pure spiegare la sua incapacità a difendersi contro ogni assalto di barbarie”. È una fragilità che dolorosamente sperimentiamo. Ma va comunque preservata e alimentata. È “un’oasi di libertà intellettuale e materiale…, un ‘ambiente di cultura’ nel quale l’uomo ha modo di contemplare la propria vita, quella degli altri, quella del mondo, e d’inventarne il significato”. Già il giovanissimo Caffi nella Russia zarista ne vedeva instabilità e debolezza: “Ai tempi della mia giovinezza, era d’uso comune in Russia contrapporre al ‘governo’ da un lato la ‘società’ vessata, sovversiva, sempre impaziente di manifestare la sua critica in parole e anche in atti, dall’altro il ‘popolo’, molto più oppresso, ma passivo, amorfo, e spesso più ostile alla ‘società’ che al governo, e ciò perché lo scandalizzava il nonconformismo della ‘società’”. A questo duplice attacco occorre rispondere perché – le abbiamo pur sognate e quasi intravviste – vi siano “infine le rivoluzioni ‘liberatrici’, risultato della convergenza fra le aspirazioni lungamente maturate in vasti strati del popolo e le idee elaborate in seno alla ‘società’. Da qui l’atmosfera di gioia, di speranza radiosa, di riavvicinamento fraterno degli uomini che avvolge queste ‘albe di una nuova era’”. Omnicrazia, la chiamava Aldo Capitini.