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Stati nazionali

DiDaniele Lugli

Feb 28, 2022

Nella vicenda ucraina vediamo all’opera gli Stati-nazione, con diversa potenza e prepotenza. Sono sovrani. Non riconoscono interessi sopra di loro. La vita, la libertà delle persone concrete non li riguarda. Non riconoscono profondi, necessari legami troncati da arbitrari confini, vecchi e nuovi. La Grande Russia nega che l’Ucraina, frutto di un capriccio bolscevico, possa considerarsi una vera Nazione. Questa replica rivendicando il patriottismo di tutti i suoi soldati, riservisti, miliziani e cittadini, ansiosi di combattere in difesa del Paese e dell’Europa tutta. Gli autori del manifesto di Ventotene, conoscono queste dinamiche e, ottanta anni fa, al confino, scrivono dell’urgenza della scelta federale per l’Europa. Vedono le peggiori canaglie rifugiarsi nel patriottismo, come duecento anni prima scrive Samuel Johnson. Sanno che lo Stato nazionale ha esaurito la sua funzione di progresso. È al servizio della reazione e produttore di guerra. Rileggo un brano.

Si è affermato l’eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato dalle sue caratteristiche etniche, geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo. L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere entro il territorio di ciascun nuovo Stato alle popolazioni più arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili.

Essa portava però in sé i germi dell’imperialismo capitalista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, sino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali. La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza di uomini che, pervenuti grazie a un lungo processo a una maggiore unità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana; è invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo ‘spazio vitale’ territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno”.

Lo dice pure a modo suo Michele Serra su l’Espresso. Per ragioni di attualità prende le mosse dal “mito fondante della Grande Russia: le tribù, stanche di scannarsi tra loro, si unirono per scannare i popoli vicini”. Quello che scrive a proposito del mito fondante, dello spazio vitale, dei riti e del sacro può però ripetersi per tutti gli stati, con i loro “esclusivi” miti, spazi, riti e sacro, a garanzia della sovranità. Lo spazio: “Come mai – si chiedono gli storici – anche quando hanno a disposizione uno spazio quasi infinito, pianure fertili, foreste, fiumi, laghi, i popoli amano sgozzarsi a vicenda, percorrendo migliaia di chilometri pur di farlo?” Così si chiede e si risponde, con diverse ipotesi. Il rito: “Più antico è il rito più forte il suo potere sui contemporanei”. Apprendiamo della maledizione dei tartari proferita dal pope Ludovico nel 1159, urlata così forte da uccidere il pope, beatificato la sera stessa. È trasmessa da una staffetta di migliaia di volontari per giungere fino al lontanissimo re dei tartari. Il sacro: “C’è sempre un segno divino che – autentico prodigio – trasforma un branco di omoni maneschi, e di donne ingravidate dagli omoni maneschi, in una Nazione… Sono i segni che Dio benedice il tuo popolo e desidera la distruzione di tutti gli altri”. È così che si mettono in moto i Putin, aggressori, assassini, incuranti del male che fanno anche al proprio popolo, eredi del proto zar Akim Kagarovic, dei Kagarovic, evocato da Serra.

Bisogna sbrigarsi, pensano e scrivono al confino i nostri padri e madri federalisti. Bisogna approfittare della distruzione delle istituzioni che la guerra certamente porterà in Europa. Bisogna che tutte le energie si impegnino per la federazione europea. Senza questo “I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”.

Già sembra quasi tardi a Luigi Einaudi, nel 1954: “Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire”. Sappiamo com’è andata. Quanto faticoso, incerto, contradditorio sia il procedere verso la sola soluzione sensata di un’Europa federale, capace di costruire solidarietà al suo interno e di contribuire alla diffusione della stessa anche oltre i confini.

Non lo può “lo Stato nazionale, che con la sua sovranità indivisibile impedisce la formazione di vere autonomie regionali e locali, e con la sua sovranità esclusiva, dipendente dall’unificazione di nazione e Stato, impedisce la formazione di vere e proprie solidarietà politiche e sociali al di sopra degli Stati nazionali”. Così scrive Mario Albertini. Indica pure il “federalismo come superamento della divisione del genere umano”. Un passo fondamentale, ci ricorda, è “negare il fondamento della legittimità del dovere di uccidere, e togliere di mezzo l’oscurità della cultura nazionale, che ha impedito persino di riconoscere che non si possono attuare il liberalismo, la democrazia e il socialismo senza l’affermazione del diritto supremo di non uccidere”. È bene ricordarcene ora. È il federalismo che mi ha attratto in gioventù e che ancora mi convince. Lavorare per la sua realizzazione, a partire dall’Europa, è un modo concreto di operare per la pace.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2023), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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