Mi propongo in queste righe di riprendere una riflessione non nuova, ma tuttavia credo negli ultimi anni un po’ trascurata, sui mezzi dell’azione nonviolenta, cercando di riportarli alla realtà attuale, con due esempi concreti. Il primo relativo ad alcune pratiche di lotta del vasto e diversificato movimento pacifista, antimilitarista, disarmista in Sardegna, in opposizione alla presenza dei poligoni militari nell’isola. Il secondo relativo alle azioni degli attivisti di Last Generation, in contrasto alla crisi climatica, e la loro ricerca dell’impatto mediatico.
Secondo Gene Sharp, uno dei più importanti teorici che hanno scritto sull’azione diretta nonviolenta, “confidando nella violenza, si sceglie un terreno di lotta in cui gli oppressori hanno quasi sempre la superiorità. I dittatori dispongono dei mezzi per applicare la violenza in maniera soverchiante” (Gene Sharp, “Dalla dittatura alla democrazia”). Non solo la nonviolenza concorda mezzi e fini, ma risulta anche più efficace. Le tecniche di azione nonviolenta, secondo l’autore, si possono classificare in tre categorie principali: protesta e persuasione (proteste, sit-in, marce…), non collaborazione (sociale, politica, economica, boicottaggi, scioperi, non legittimazione…) e intervento (occupazioni nonviolente, creazione di mercati alternativi, di governi paralleli, blocchi nonviolenti, sabotaggi). La scelta dei mezzi andrà ponderata: si analizzeranno meriti e limiti delle diverse tecniche di lotta, domandandosi se esse colpiscono i punti deboli del regime, se servono a incrementare la sicurezza degli oppositori nei propri mezzi, se aumentano o diminuiscono il rischio di repressione, se aumentano o diminuiscono le simpatie verso il movimento, se influiscono e in quale misura, sull’opinione pubblica e sulle decisioni politiche.
La scelta di azioni nonviolente, sempre seguendo Sharp, necessita comunque di una forte autodisciplina all’interno dei gruppi che le praticano, perché implica abbracciare la forza delle idee contro quella della brutalità. Cadere nel tranello di rispondere alla violenza con la violenza, corrode gli ideali, concede l’occasione alle forze repressive per un’ulteriore escalation e ai mass-media ufficiali di etichettare gli oppositori come violenti e facinorosi, oscurando l’informazione sul programma che li muove, sugli ideali che li spingono. Per questo sono fondamentali l’autodisciplina e la coesione.
Aprire un varco
Il primo esempio che voglio esaminare è quello dell’azione diretta rivolta all’occupazione militare in Sardegna, con la pratica, più volte attuata, del taglio dei reticolati durante le manifestazioni davanti alle basi militari.
Tagliare il reticolato è un atto di grande potere evocativo e simbolico. E’ quindi anche un atto estetico e, in questo senso, “mirabile”. La rete segna il territorio militare, ma potrebbe anche essere la rete di una frontiera, o di un campo di prigionia: rimanda al limite, alla separazione, all’appropriazione violenta, alla discriminazione, alla prigionia. Di conseguenza, la violazione di questo limite diventa grido di libertà, riappropriazione della propria umanità, afflato di fratellanza. Perché il filo spinato che ci separa, il muro che ci divide, sono violenza.
Queste azioni dimostrative non possono dirsi violente, in quanto l’unico eccesso di forza esercitato è contro un oggetto inerte. Potrebbe, un tale atto, anche diventare violento se il danneggiato fosse un semplice proprietario di un terreno, che si sentirebbe violato e impaurito, ma non lo è di sicuro davanti alla mastodontica macchina di potere economico-militare. Se si può parlare allora di azioni dirette non violente (senza l’uso di violenza), tuttavia si tratta al contempo di azioni illegali, che quindi possono comportare, tra i loro effetti indiretti, anche l’aumento delle tecniche repressive da parte delle forze dell’ordine e il rischio di denunce nei confronti dei manifestanti. La reazione della polizia può anche rivelarsi sproporzionata e mettere a repentaglio l’integrità fisica e la salute delle persone e finire con l’alienare il sostegno alla causa di una parte dei movimenti e di coloro che, pur avendo una posizione contraria alla guerra e al militarismo, non sono disposti a sopportare un rischio elevato. Va anche detto che queste azioni dirette si inseriscono in una visione tattica, cosa peraltro diversa dall’azione diretta nonviolenta in senso strategico.
Le differenze in questo senso sono chiare: nella visione strategica nonviolenta ci si assume la responsabilità della propria disubbidienza in modo chiaro e trasparente, evitando i sotterfugi e la segretezza, quanto la contrapposizione aperta con le forze dell’ordine, che non sono viste come un nemico da disprezzare, ma come un’emanazione dello Stato, con cui ricercare un confronto, conflittuale ma rispettoso. Questo sia perché dietro quelle divise ci sono persone, sia perché, come ci ammonisce Sharp, “i promotori della ribellione politica tengano ben presente che è molto difficile, se non impossibile, abbattere il regime se polizia, apparato burocratico e forze armate esercitano pieno sostegno alla dittatura ed eseguono fedelmente gli ordini ricevuti. Le strategie mirate a inficiare la lealtà di queste forze del regime devono avere priorità assoluta”. Gli slogan denigratori ed offensivi contro gli uomini in divisa, che spesso sentiamo durante i cortei antimilitaristi, non sono d’aiuto in questa prospettiva.
Possiamo provvisoriamente riassumere che attualmente il movimento antimilitarista e disarmista in Sardegna non è ancora pronto ad abbracciare una lotta nonviolenta, con tutte le implicazioni politiche, etiche e strategiche connesse. Al contempo si deve anche ammettere che le azioni dirette esercitate durante le manifestazioni (taglio di reticolati, invasioni simboliche) non possono essere annoverate come azioni violente. Ne segue che può esserci un margine di confronto, uno spazio di dialogo fra le varie componenti, politiche e generazionali, che compongono tale movimento in senso lato, nella consapevolezza che un’unità di intenti è indispensabile.
Avere l’attenzione
Il movimento denominato Last Generation, nato dal precedente Extinction Rebellion, vuole rispondere ai temi ambientali e dei cambiamenti climatici in modo netto ed integrale: basta emissioni di CO2, basta coi combustibili fossili e subito, siamo già oltre il limite e rischiamo l’irreversibilità di un processo di autodistruzione. Come dar loro torto? Nell’ultimo anno ed anche nel 2023 gli attivisti che si richiamano a Last Generation hanno compiuto numerose atti dimostrativi eclatanti, come imbrattamenti nei musei, o in monumenti (con vernici solvibili), mettendo in atto una tattica di azioni dirette non violente (senza uso di violenza), ma fortemente impattanti dal punto di vista mediatico. Infatti hanno avuto risonanza sui canali televisivi e sulla stampa, così come si proponevano, a rischio della propria incolumità e di pendenze legali. La ricerca di attenzione è per loro fondamentale, perché pensano che il tempo sia scaduto per il pianeta e che ciascuno debba testimoniare fortemente questo disagio, affinché partendo dai singoli esempi qualcosa cambi. Un po’ quello che, con tutte le differenze del caso, gli anarchici della prima parte del Novecento denominavano “la propaganda del fatto”.
Non sembrano ricordare, con le scelte dei bersagli, simboli importanti da attaccare, visto che privilegiano i luoghi dell’arte e della cultura, rischiando così di essere presi per vandali. In questo senso, la stessa visibilità che ricercano gli si può ritorcere contro. Questo limite mette in dubbio una realistica visione strategica di queste azioni, se prive di un movimento pubblico che dia loro una legittimazione, all’interno di una più ampia campagna di disubbidienza civile. Questo movimento d’azione, che pure presenta ideali da condividere e urgenze che non si possono procrastinare, non agisce in una strategia nonviolenta, in quanto non trasparente e segreto e senza una base sulla piazza su sui contare, che possa dare risalto alle azioni.
Riflessioni provvisorie
La nonviolenza non va scambiata con il legalitarismo. Gandhi, Luther King, Mandela non hanno esitato a disobbedire alle ingiustizie sociali, anche infrangendo leggi ingiuste e prevaricazioni. Per estirpare la mala pianta della violenza dalla Storia, qualunque mezzo creativo è possibile, tranne quello della violenza stessa, che non rappresenterebbe alcun progresso nel cammino verso una società libera, gestita dal basso e socialmente egualitaria. La nonviolenza è chiamata al contempo a cambiare l’educazione, la cultura, le relazioni fra le persone, i modi della comunicazione. Non avremo mai la pace, non ci sarà disarmo, se le persone non sapranno prepararli, dentro di sé e attorno a sé.
Gli esempi che ho voluto citare ci dicono che, pur nelle difficoltà susseguenti agli anni della pandemia ed alle laceranti divisioni che ha portato, qualcosa si muove ancora, anche fra le giovani generazioni. Le loro azioni, con tutti i limiti di cui ho detto, sono comunque espressione di una volontà politica che si pone contro la guerra, gli armamenti, contro lo scriteriato uso dei combustibili fossili e la “cultura” predatoria e militarista.
Forse dovremmo interrogarci su questi ed altri esempi simili, perché possa esserci un confronto aperto. Nella speranza di poter dare, come diceva Aldo Capitini, la nostra aggiunta nonviolenta.
Carlo Bellisai