Qualunque essere vivente, in natura, può esercitare il proprio diritto a difendersi davanti ad un’aggressione. La maggior parte degli animali esercitano tale diritto attraverso tecniche specifiche di fuga, mimetismo, disorientamento, rifuggendo dall’affrontare l’aggressore in modo diretto. Le antilopi, o i cervi, ad esempio, scelgono la fuga davanti a un predatore, ben sapendo che la propria resistenza nella corsa darà loro buone probabilità di scampare il pericolo. Altri, invece, hanno perfezionato notevoli doti di mimetismo che, unite all’immobilismo, possono far perdere le proprie tracce. Inoltre ci sono casi di animali che si difendono cercando di spaventare l’aggressore: sappiamo che il gatto assume una posizione di difesa assai spettacolare, gonfiandosi, irrigidendo il pelo, sollevando la coda e soffiando. Le tecniche di soffio e di sibilo, così come quelle di ampliamento del proprio corpo, possono mettere in ansia il predatore, farlo desistere, o almeno ritardare la sua azione, permettendo alla preda di eclissarsi. Ci sono infine anche tecniche di difesa estreme, come quella della morte simulata. L’opossum e il camaleonte, per esempio, ma talvolta anche la volpe, come pure molti insetti, utilizzano questo espediente spesso con successo, perché la maggior parte dei predatori preferisce una vittima viva, che si muove, ad una già morta, o comunque questo si aspetta e resta spiazzata.
Quindi un po’ tutti gli animali usano tecniche di difesa originali e spesso creative, per risolvere a proprio favore gli episodi di aggressione della loro vita. Relegando a casi estremi lo scontro diretto corpo a corpo, che sarebbe facilmente mortale.
Possiamo dire che succeda altrettanto nella specie umana?
Il nostro caso è del tutto a parte, visto che le aggressioni di esseri umani da parte di altre specie è diventato piuttosto raro. D’altra parte è la nostra stessa Storia ad insegnarci che il più grande pericolo (per noi) siamo noi stessi.
Dal Neolitico ad oggi, le tecniche che sono state maggiormente approfondite e perfezionate sono quelle relative alle armi. Si è passati dalla scure e la lancia agli archi e alle balestre, dalle catapulte ai cannoni, dagli archibugi ai fucili a ripetizione, fino ai carrarmati, agli aerei bombardieri, alle portaerei e ai sommergibili, ai gas letali, fino alle bombe atomiche e ai droni-killer. Se avessimo messo altrettanto ingegno e risorse nella cultura e nella cooperazione fra i popoli avremmo già oggi un mondo in cui le guerre e le armi sarebbero obsolete. Ma così non è stato e non è. Anzi, gli esseri umani sono a tal punto abituati ad aggredirsi e a difendersi in modo violento, che ne è nata una retorica eroico-militaresca, intesa ad attribuire valore e validità alla violenza stessa e alla guerra in particolare. La violenza diretta, atta a colpire ed eliminare l’avversario, tenuta ai margini da tutte le altre specie animali, è considerata frutto di coraggio e virtù, mentre il comportamento di fuga, così utile ad evitare lo spargimento di sangue, viene equiparato all’inettitudine e alla codardia. Tuttavia, sgombrato il campo dalla retorica bellica, sappiamo che sono numerosi i casi in cui, anche in guerra, i comportamenti di fuga, di mimetismo, di morte simulata prendono il sopravvento, in quanto non solo più naturali, ma anche più congrui all’obiettivo di salvare la propria vita e quella dei propri cari. Fuggire, nascondersi, fare il morto, costituiscono opportunità più efficaci dello scontro cruento, per poter riportare a casa la pelle. Anche se nella retorica militarista tali comportamenti di difesa vengono classificati come disonorevoli, quando non anche perseguiti come tradimento, non si capisce quale disonore possa esserci nell’aver risparmiato vite. Né, di contro, quale onore ci sia nell’uccidere dei propri simili o venir da questi uccisi per degli astratti concetti di patria, suolo, nazione. Quando non si pone anche in campo la religione.
In realtà, tolti pochi assassini, generalmente prezzolati, che uccidono per propria perversione, o per condizionamento, la maggior parte dei soldati è messa davanti al dilemma se uccidere od essere uccisi, esattamente come nella celebre canzone di Fabrizio De Andrè “la guerra di Piero”. Per evitare pericolose esitazioni, i soldati vengono adeguatamente indottrinati sul comportamento da tenere in battaglia: il nemico viene completamente disumanizzato dalla propaganda, di modo che possa essere abbattuto come una bestia. E la minaccia della fucilazione per i disertori fa il resto.
In questi ultimi mesi si è spesso parlato di diritto alla difesa del popolo ucraino, nei confronti dell’aggressione russa. Non v’è dubbio che tale diritto possa essere esercitato. Il problema è semmai cosa si intenda per difesa. Innanzitutto difesa civile, o militare? Sembra che in Ucraina, senza nulla togliere a quanti si prodigano nella protezione e nel soccorso, sia stata scelta la seconda opzione. Il concetto militare di difesa, tuttavia, non si differenzia sostanzialmente da quello di attacco, né esiste più una netta distinzione fra armi difensive ed offensive. In altre parole, difendendosi militarmente davanti all’aggressione militare, si porta lo scontro su di un terreno in cui, inevitabilmente, carnefici e vittime si mischiano fra loro in un’escalation senza fine. Il diritto alla difesa annega allora nell’odio e nel sangue, dove la violenza non può distinguersi dalla violenza, il crimine dal crimine.
Come esercitare allora il proprio diritto alla difesa, senza cadere nella trappola della violenza? A differenza delle altre specie, gli esseri umani possono avere al loro fianco altri strumenti, che non siano la fuga, il mimetismo o il fare il morto. Abbiamo la possibilità del confronto, della mediazione, del negoziato: in altre parole, della gestione costruttiva del conflitto affinché, anziché degenerare in guerra, diventi occasione per la chiarificazione dei rapporti e la creazione di un equilibrio. Quindi il conflitto va prevenuto, ascoltato, curato, prima che si trasformi in qualcosa d’irreparabile. Ma quando questo non lo si è fatto e la violenza è ormai deflagrata? Come difendersi? La Storia ci insegna (l’India di Gandhi, la Danimarca durante l’occupazione tedesca, il Sudafrica di Mandela) che è possibile difendersi senza aggredire: attraverso la non-collaborazione, la disobbedienza civile, la protezione di chi è in pericolo, il boicottaggio e il sabotaggio. Si può resistere in modo nonviolento, con efficacia, diminuendo di molto il numero delle vittime.
La guerra non la vince mai nessuno, perché anche chi si autoproclama vincitore ha solo da piangere su morte e rovine. Qualcuno crede sempre di averla vinta, primi fra tutti i commercianti d’armi, che guardano col naso in su i fatturati. Oltre i generali che avranno avuto le loro medaglie, i presidenti che avranno mantenuto il proprio potere, gli affaristi che avranno lucrato sulle rovine, chi potrà gloriarsi di qualcosa? I loro popoli avranno tutti perso, prima di tutto una buona occasione per non uccidersi; in secondo luogo, un’altra occasione per non diventare più poveri di prima.
Perché la guerra la vince solo la guerra, perpetuando la diffidenza, l’odio e la paura e preparando così, come un virus, la sua replicazione.
Per questo io obietto alla guerra, ciascuno può farlo!
Basta andare al link Dichiarazione di Obiezione di Coscienza alla guerra.
Articolo esaustivo. Chi avesse dubbi sulla efficacia della difesa civile non violenta pensi solo alla fitta rete di relazioni sociali, capitale umano e fiducia che si verrebbe a costruire. Utile e vincente in tempo di difesa, ancora più utile e produttiva in tempo di pace.