Ne vale la pena. Aung San Suu Kyi, nella lotta instancabile per la libertà del suo popolo e per i diritti umani, l’ha richiamata spesso alla mia memoria, con il suo viso e i suoi discorsi, belli, dolci, decisi. Pochi Nobel per la Pace sono apparsi altrettanto appropriati di quello attribuitole nel ’91.
Adesso The lady è al potere. Le sue parole però non hanno più nulla di musicale. Da tempo Amnesty denuncia la situazione dei Rohingya. In Birmania non li vogliono: ci sono da generazioni, ma la versione governativa è che siano profughi del Bangladesh, dove si rifugiano per essere accolti in campi dalle condizioni intuibili. Arrivano disperati a decine di migliaia, incalzati dall’esercito birmano e dalle milizie buddiste, evitando l’arruolamento nelle bande male armate proclamatesi Esercito per la salvezza dei Rohingya, attraverso mare, paludi, fiumi, su traghetti, che spesso affondano, di trafficanti, che anche lì non mancano. Fuggono da decapitazioni, stupri, assedi, morte per fame. A rendere anche più difficile il passaggio, informa la BBC: Rohingya crisis: Myanmar ‘mining border’ as refugees flee. È vero ci sono molte mine al confine, ma ci sono da decenni, l’esercito non ne ha messe di recente. E poi chi può dire che non le abbiano messe lì i terroristi?, dice il portavoce di Aung San Suu Kyi. Lei, dal canto suo, aggiunge che sono solo fake news dei terroristi, un iceberg di disinformazione. Nessuna iniziativa: nemmeno la firma del trattato di messa al bando delle mine antiuomo in vigore da venti anni. Un gesto minimo, parrebbe, per un premio Nobel della Pace.
Il segretario generale dell’Onu allerta il Consiglio di Sicurezza: siamo sull’orlo di una catastrofe umanitaria. L’Unione Europea chiede un accesso umanitario, perché operatori possano raggiungere le centinaia di migliaia di profughi ammassati al confine con il Bangladesh. Il presidente turco Erdoğan, forse perché la popolazione in questione è musulmana (ha parlato di genocidio nei loro confronti), ha disposto l’invio di moglie e figlio in Bangladesh a vedere le condizioni dei campi profughi e ha telefonato ad Aung San Suu Kyi. È stato rassicurato: è tutta disinformazione che fa gli interessi dei terroristi. Un interlocutore ideale The lady lo ha però trovato nel Presidente dell’India Narendra Modi, con il quale ha firmato 11 accordi tra i due Paesi. Lui ha idee chiare sui 40 mila profughi Rohingya presenti in India: vanno deportati – dove non si sa – poiché rischiano il reclutamento da parte dei terroristi. Ha idee chiare anche a proposito della pace, chissà se ne ha parlato con l’ex premio Nobel. Scrive The Guardian India army chief: we must prepare for simultaneous war with China and Pakistan.
È giusto il 70° anniversario della prima guerra indopakistana. A ferragosto del ’47 i due stati, nuovi e indipendenti, festeggiano e a ottobre sono già in guerra per il Kashmir. Esodi di milioni di persone e violenze tra musulmani e induisti producono morti a centinaia di migliaia. Gandhi non partecipa ai festeggiamenti e digiuna, a settembre, a Calcutta fermando le peggiori violenze e costruendo un dialogo tra i capi delle due comunità religiose. A gennaio – per la pace tra India e Pakistan e perché sia dai due stati assicurata l’eguaglianza tra i cittadini quale che sia la religione – riprende il digiuno a Delhi. È assassinato da un fanatico indù il 30 gennaio. Anche con la Cina l’India è in guerra nell’ottobre del ’62: è il 55° di un breve conflitto per un territorio di confine vinto dai cinesi. Paesi immensi e popolatissimi, con armi nucleari, si fronteggiano minacciosamente. Non troppo lontano l’incredibile dittatore coreano sfida l’altrettanto incredibile presidente del più potente paese del mondo. Le loro teste, che appaiono ovunque sui giornali e in tv, colpiscono e si distinguono più per l’acconciatura dei capelli che per la qualità dei contenuti.
Mi torna il ricordo de L’arpa birmana. Aung San Suu Kyi nasce il 19 giugno del ’45, figlia del generale Aung San, che nel marzo proclama l’insurrezione contro gli occupanti giapponesi, dopo una fase di collaborazione. Proprio in quell’estate è ambientato il film. È la storia del soldato Mizushima, che canta per sé e per i suoi commilitoni giapponesi, accompagnandosi con un’arpa birmana. Sono le ultime, drammatiche, sanguinose settimane di guerra. Nel tentativo di risparmiare morti Mizushima resta gravemente ferito. Curato da un bonzo si fa bonzo a sua volta e resta in Birmania per ritrovare e seppellire i corpi insepolti. Lascia ai compagni, che fanno ritorno in patria, un messaggio in cui è, tra l’altro, detto Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano. Ho visto l’erba bruciata, i campi riarsi… perché tanta distruzione caduta sul mondo? E la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà. Parole così, un tempo non lontano, avrebbe potuto dirle Aung San Suu Kyi. Ne abbiamo nostalgia.