Tango a mis padres nasce nell’autunno 2013 a Ferrara quando cercavamo un testo per una breve lettura teatrale sulla violenza familiare raccontata attraverso le parole di due bambini, lui e Lei, che abbiamo presentato sia ad un pubblico adulto sia a scolaresche. Lo riproponiamo qui, a disposizione di chi volesse utilizzarlo magari per trarne spunto e poi cambiarlo ancora.
Le voci sono autentiche, quella di lei è tratta da “Con voce bambina” (meridiana, 2012), quella di lui da incontri diretti.
Il titolo lo abbiamo mutuato da un brano musicale meraviglioso, che abbiamo utilizzato come sottofondo, ed è di Dino Saluzzi e Anja Lechner. Se vi va di ascoltarlo mentre continuate a leggere, lo trovate qui
Elena e Caterina
Lei: Tanto apparecchio io.
I coltelli sono bianchi o rossi. Allora: io, mamma e Carlo il manico bianco, papà quello rosso.
Si capisce perché.
Lui: Ricordo le violenze di mio padre anche quando avevo dieci anni, che aveva preso mia mamma per i capelli. Io mi sono nascosto e lui mi ha trovato e mi ha buttato contro il muro. Avevo i lividi. Mia nonna materna ha minacciato di denunciarlo se succedeva ancora.
Mi raccomando, non dire niente fuori di quello che succede in casa.
Mamma lo ripete continuamente e allora io sto zitta.
Anche mamma sta zitta, non dice niente a nessuno.
Bisogna vergognarsi molto di quello che succede qui.
Quando papà urla, mamma si preoccupa che i vicini lo sentano.
Una sera papà viene in casa arrabbiato e minaccia mia mamma:
“Ti ammazzo, ti seppellisco”. Aveva un’ascia in mano.
Io ho detto: “Andiamo dagli operatori”.
E a loro ho detto: “Fate qualcosa. Io sono un ragazzo, lui è un adulto. Posso trattenerlo per un po’ ma non per molto”.
Come si fa a sapere che cosa si deve fare?
Niente che vada bene o male per sempre, tutto può scatenare la burrasca cattiva.
È un bel problema, non ci si può riparare.
Perché hai respirato, perché hai mosso un braccio, perché hai perso un capello, perché ti sei fermata?
Perché esisti?
Non lo vedi che dai fastidio, così?
Non dice proprio queste cose, papà. Le parolacce sì ma non chiede perché esistiamo. Parla di quel fatto. Il fatto specifico che lo fa imbestialire oggi.
Ma può essere qualunque cosa, e lasciarlo indifferente domani.
Un giorno ricordo che ha preso per la gola mia mamma e io sono intervenuto, ho preso per la gola lui e l’ho spinto via e ho detto: “Ora la mamma non la tocchi più, oppure intervengo io e andiamo all’ospedale tutti e due”.
Quella sera ho dormito dalla nonna.
Papà urla e gli si cambia la faccia. Non sembra nemmeno lo stesso papà.
Sarà sfinito.
Dev’essere una gran stanchezza urlare così.
Glielo dicevo, “Tu sei grande, devi capire che stai sbagliando, tra un po’ perdi tutti noi”. Non ci credeva e poi è successo, che ci ha persi.
Ci litigavo negli ultimi tempi perché stava al bar, non si occupava di noi. Dice che sono un ragazzino e devo farmi i fatti miei. Io sono un ragazzino ma a queste cose ci tengo. Se fossi nei Carabinieri lo metterei dentro e non lo farei più uscire fino a che non gli cambia la testa.
I grandi nessuno li coccola. Dev’essere molto triste la vita dei grandi.
Ci vorrebbe, che a turno tutti ritornano piccoli, si fanno abbracciare e poi ridiventano adulti come prima.
Non vedo mio padre da più di un anno, non lo sento da un paio di mesi, non so neanche se è vivo o morto perché l’assistente sociale non riesce a trovarlo e… boh, non m’interessa.
Prima avevo la speranza che potesse cambiare e fregarsene un po’ di più di me, ma adesso no, non me ne importa niente, sinceramente.
Cioè… Non sento il desiderio di parlare con lui. Non mi cambia niente.
Le cose – chiudi gli occhi e le cancelli.
(Magari anch’io se non mi guarda nessuno).
Espulse per bene non fanno quasi più niente.
Quasi. Un non so che di vago è il residuo. Un senso di sporco che non si lava mai, ci si nasconde perciò.
Ci sono posti dove non si può guardare. Dentro hanno i vermi.
Gl’incontri con mio padre insieme all’educatore sono andati così così.
Lui è venuto a sapere dove stavamo, si è presentato alla prima comunità per piantare casino e lì per lì ho avuto proprio paura che ci ammazzasse, era fuori di sé. Difatti volevo chiamare i carabinieri…
Non lo so cosa vedevo ma ricordo la paura.
La ricordo così bene.
Da come conosco mio padre, se si mette in testa di venire a cercarci ci trova anche dove viviamo adesso.
Ho un po’ paura, difatti. Spero che davvero se ne freghi di noi.
Vorrei scrivergli una lettera. Vorrei dirgli i miei pensieri, le mie emozioni, quello che ho nella testa. Potrei farlo anche insieme a mamma, tanto lei non mi dice mai “scrivi questo, scrivi quello”.
Vado abbastanza bene in italiano e anche nelle altre materie. Da grande vorrei fare la veterinaria e curare tutti gli animali del mondo.
Io? Sono in prima superiore. Ho dei bei voti anche se ne ho passate tante.
Il mio sogno è fare il meccanico.