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Taranto, Rebibbia e non solo. Bambini lanciati nel vuoto. Neppure il dibattito li raccoglie

DiElena Buccoliero

Ott 18, 2018

Poche settimane dopo a Taranto un uomo accoltella alla gola il figlio di 14 anni e butta via la bimba di 6, che resta in fin di vita. Ogni volta si accende un dibattito, ma da una parte sola.

Se il linguaggio non verbale ha un senso, gettare qualcosa, scagliarlo lontano significa rifiutarlo, disfarsene. Quando Alice Sebesta ha provocato la morte dei suoi due bambini piccolissimi ha affermato che li aveva “liberati” e io ho sentito un urto per la sensazione che fosse stata lei, a liberarsi di qualcosa. Ma bisognerebbe essere stati lì per provare a capire. M’interessa di più quello che è successo dopo.

Il Ministro della Giustizia ha rimosso i vertici dell’istituto, e mi pare voglia dire: dovevate controllarla di più. Chi meglio si occupa di pena in Italia ha protestato testimoniando una buona direzione e ha dato la colpa ai giudici che non avevano concesso i domiciliari, o al sistema che non applica le norme pur esistenti sulle forme di detenzione delle madri con bambini, come a dire: bisognava controllarla di meno. Le due posizioni si sono rispecchiate in Commissione Giustizia al Senato trattando l’introduzione di misure alternative per le donne con bambini, proposta bocciata dalla maggioranza.

L’umanizzazione delle condizioni di detenzione, in generale ma per i bambini di più, rinchiusi ed evidentemente innocenti, ci riguarda tutti – quando leggo che quei piccoli hanno uno sviluppo cognitivo ed emotivo condizionato, rallentato, difficile, comprendo bene il senso delle proteste – ma trovo che il discorso non calzi pienamente al caso. Entrambe le voci – controllare di più, controllare di meno – partono da un assunto comune. Si differenziano sul come ma non sul se, cioè non mettono in discussione il fatto che Faith e Divine dovessero stare lì. E io ora non parlo di tutti i figli di donne detenute, ma proprio di quei bambini. Che cosa sappiamo di loro?

La madre era stata arrestata in una macchina dove viaggiava con altre due persone e 10 o forse 14 chili di cannabis. Qualcuno ha pure scritto che erano nascosti tra i pannolini, non so se fosse vero, l’informazione non sarebbe inutile. I figli erano in auto con lei? Non viene detto, forse sì, se è vero che al momento dell’arresto non c’era a chi lasciarli e per questo hanno seguito la mamma in carcere. Le avevano negato i domiciliari, perciò era depressa, ma poi leggiamo che la settimana seguente la misura sarebbe stata ridiscussa e lei lo sapeva. Leggiamo, ancora, che proprio quel pomeriggio Alice Sebesta avrebbe incontrato i parenti (dunque aveva dei parenti!?) e forse questo ha avuto un ruolo nell’uccisione dei bambini (chissà in che modo?). Il padre, che sulle prime non si trovava, è risultato perfettamente reperibile: detenuto, anche lui per spaccio, però in Germania. Non lo avevano cercato per capire chi erano i genitori di questi bambini finché erano vivi, sono più motivati quando c’è da richiedere l’espianto degli organi dopo la morte cerebrale. Scopriamo, ancora che in detenzione la mamma aveva già mostrato “insofferenza” verso i figli, i suoi comportamenti erano stati segnalati, chissà forse bisognava intervenire…

I figli di detenuti hanno bisogno di cure amorevoli come tutti i bambini, e come tutti possono riceverle dalla madre ma anche da altri adulti, se la madre in quel momento non è in grado di occuparsi di loro. Un giudice minorile con cui ho lavorato parecchio, nelle udienze con questi genitori, domanda più o meno: “Lei ritiene che sia compatibile, il fatto di spacciare droga, con l’occuparsi responsabilmente di due bambini così piccoli?”. Non è una domanda retorica. Quale spazio mentale dedicava alla sicurezza e al futuro dei Faith e Divine mentre svolgeva la sua vita?

Ecco, mi ha colpito che nessuno si sia domandato non come devono essere accolti in generale le donne detenute con figli, ma se era poi così opportuno che quei bambini seguissero la madre in carcere, e lo facessero subito dopo l’arresto.

Eppure le alternative esistono. Per esempio un inserimento in emergenza in una famiglia affidataria (o presso familiari, se disponibili e idonei) per darsi qualche mese di tempo e verificare le condizioni della madre e il suo legame con i bambini. Non voleva dire decidere in fretta se sarebbe mai stata una buona madre, ma capire se in quella fase poteva occuparsi dei figli e agire con prudenza tenendo a mente la protezione di due persone.

Questo discorso è poco praticato, sembra quasi crudele, un accanirsi contro quelle povere donne ristrette. Ma non lo ordina il dottore, di commettere reati, e nemmeno di mettere al mondo dei figli. Dev’essere proprio vero che mettere in discussione l’appropriatezza delle relazioni familiari per noi italiani mammoni è una minaccia inaccettabile.

Quando dopo i fatti drammatici accaduti a Taranto La Stampa, quotidiano di un certo valore, ha titolato “Taranto, gli tolgono la responsabilità genitoriale: lui getta la figlia dal balcone e accoltella il figlio” ho sorriso amaramente. Forse l’effetto non era voluto, ma si suggerisce un legame causale: siccome gli hanno tolto il ruolo di genitore, allora lui eccetera.

Davvero possiamo pensare che abbia cercato di ammazzare i figli per dispetto ai giudici? Aveva già subito una condanna per lesioni e maltrattamenti in famiglia, vuoi vedere che la responsabilità genitoriale l’aveva persa perché non era in grado di esercitarla, e non viceversa?

Ci sono poi tanti punti oscuri in questa faccenda di cui si sa poco, caduta nel dimenticatoio dopo i primi giorni di cronaca (la piccola come starà?). Pare sia andata così: i bambini erano dalla nonna paterna, c’erano diversi zii e anche il padre, che litiga al telefono con l’ex moglie. Furente, prende un coltello e ferisce il figlio maggiore alla gola, fortunatamente in modo lieve. A questo punto – qui si apre il mistero – uno zio porta il ragazzo all’ospedale, la nonna si rifugia da amici e la bambina di 6 anni… rimane lì, col padre e – pare – altri zii, senza che dopo la coltellata uno qualsiasi di questi adulti pensi a chiamare subito le forze dell’ordine. Si dirà che lui aveva già una condanna, quelli erano la madre e i fratelli suoi, avevano paura di rovinarlo… ma almeno toglietegli la bambina! Solo per avere appena visto papà che taglia la gola a suo fratello – e chissà quanto doveva essere spaventata – bisognava prenderla in braccio e portarla via. No, la bimba resta su quel divano, e quando in qualche modo lo zio e il fratello raccontano i fatti in ospedale e da lì le forze dell’ordine, allertate, si precipitano a casa è passata ormai un’ora e la bambina è sull’asfalto. Tutto sembra così assurdo, così evitabile.

Questo signore non è il primo uomo che, in guerra con la moglie, ammazza i figli. Un modo per ferirla a morte in vita, certo. Ma anche un modo per dire alle piccole vittime: “Siete una cosa, come un vaso di porcellana, come un vestito di seta. Siete una cosa e io vi posso buttare”. Salvo poi avvalersi della facoltà di non rispondere – cioè neppure ammettere il proprio orrore – eppure piangere, disperarsi, chiedere di rivedere i bambini. Ma lei lo sa come sono fatti, i bambini?

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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