Leggo: “Facebook removes Trump ad over ‘Nazi hate symbol’ – BBC”, cioè secondo la BBC “Facebook rimuove l’annuncio di Trump ‘simbolo dell’odio nazista’”. La notizia, ripresa da tutta la stampa, è che Facebook ha cancellato uno spot elettorale della campagna di Donald Trump per aver violato le norme contro i “messaggi di incitamento all’odio”. Tra i simboli utilizzati nelle pubblicità del presidente ce n’è infatti uno usato dai nazisti nei lager per i politici: un triangolo rosso capovolto. Nel messaggio si attaccano gli Antifa “pericolosi criminali dei gruppi di estrema sinistra”. Il simbolo è dunque ben scelto. I nazisti lo usavano per quanti definivano politischer Vorbeugungshäftling, “politici detenuti con fermo preventivo”, una misura che Trump probabilmente non disdegnerebbe per i suoi oppositori. Altri triangoli potrebbe usare nella sua campagna: il blu degli Emigranten, il marrone dei Brauner, i Rom, ma adatto anche ai neri…
A me il Triangolo rosso evoca anche altro. “Triangolo rosso” è la pubblicazione dell’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti e della Fondazione Memoria della deportazione.
Uno sguardo ai siti ci dice dell’importanza e attualità delle loro proposte e riflessioni, che, come amici della nonviolenza, condividiamo. In allegato all’ultimo numero di “Triangolo rosso”, Aprile-Agosto 2020, sono gli atti del seminario “Storia e memoria” tenutosi all’inizio di quest’anno. Con i responsabili di Aned e Fondazione si sono confrontati studiosi di storia, sociologia, diritto.
Il direttore della Fondazione, Marco Bertoli, ha introdotto il tema a partire da “una discussione aperta sui problemi che riguardano il modo di operare della memoria storica della deportazione e degli avvenimenti concentrazionari”. Il seminario è “uno sforzo di ricerca culturale e non soltanto di celebrazione e di ricordo… Non serve a nulla l’indignazione o l’esorcismo” anche se le ragioni non mancherebbero. Floriana Maris, presidente della Fondazione, afferma: “il mondo della ricerca e dell’Università, se non avesse abdicato al proprio ruolo, potrebbe aiutarci a stroncare le falsità che circolano in rete sulla storia del fascismo e del nazismo, sui Lager, sui deportati”. Marcello Flores ha inquadrato il rapporto storia e memoria, da tempo al centro dei suoi interessi di studioso. Recente è il suo libro “Cattiva memoria”. Ce ne può essere una buona: “per quello che riguarda la Shoah, sicuramente per quello che riguarda la deportazione, è stata la memoria che ha spinto in un momento successivo a un lavoro di scavo, di raccolta documentaria e di riflessione storiografica”. Ma “la semplificazione che avviene attraverso i social favorisce la spinta a combattere battaglie di memoria, viste in contrapposizione, ciò che di fatto impedisce che la memoria possa risultare per quello che davvero è e la trasforma in un surrogato – che sembra più autentico – della storia”. Questo succede anche in atti solenni come la risoluzione del Parlamento europeo nella quale “il patto russo–tedesco del 1939” è causa della guerra e “dell’intervento nazista in Polonia”. Un autore, non tenero con Stalin e le politiche dell’Urss, si esprime diversamente: “Andrej Sacharov: Il patto tra Hitler e Stalin fu il meccanismo che fece scattare la guerra, la sua causa diretta – e qui sembra che dica la stessa cosa della risoluzione del Parlamento – unitamente si intende al trattato di Monaco”. È difficile ammettere le colpe dalla propria parte. In particolare gli italiani amano sottolineare “la propria condizione di vittime (dei bombardamenti, delle stragi, della violenza degli eserciti occupanti) e non essere considerati, come siamo stati, anche responsabili e complici”. Di notevole interesse pure altri contributi di carattere storico, sociologico e giuridico al seminario. Non mi provo a richiamarli nel breve spazio della rubrica. Rinnovo l’invito alla lettura degli atti. Si trovano anche on line.
Condivido la riflessione del Presidente dell’Aned Dario Venegoni: “sono il presidente di un’organizzazione che si chiama Associazione Nazionale Ex deportati, e di ex deportati non ce n’è quasi più”. Senza “dimensione umana” sono “solo un numero, un elemento di una statistica, di qualche elenco… Di qui, l’idea di lanciare un progetto per andare ad intervistare sistematicamente i figli dei deportati… Queste interviste ci consentiranno di avviare un serio ragionamento anche sulla psicologia, sulle conseguenze della deportazione nella vita della seconda generazione”. Ci sono voragini da colmare nella conoscenza storica. “Penso alla recente ricerca del l’ANED sui deportati politici ad Auschwitz. Il punto di partenza per la ricerca è stata l’affermazione di un grande esperto della storia di quel campo, il quale ha affermato che di deportati politici italiani ad Auschwitz ce ne saranno stati forse poche decine. Ne abbiamo trovati 1400”.
Ci sono voragini da colmare anche nella coscienza etica e politica. Le deportazioni in atto trovano sostenitori, forse maggioritari, negli Usa, in Europa, in Italia, per non parlare di Paesi che vivono una condizione peggiore, sotto vari profili. Di ex deportati non ce ne sono quasi più, ma in atto, ve ne sono tanti. Il vocabolario mi dice: “deportato, participio passato di deportare, anche come s. m. (f. –a), chi è condannato alla deportazione o ne sconta la pena”. È una pena alla quale si è condannati – naturalmente se poveri – per essere migranti, per l’esercizio cioè di un diritto riconosciuto da secoli come naturale e universale dagli ordinamenti internazionali, europei, nazionali. I razzisti continuano il loro sporco lavoro. Il problema è quello che facciamo, o non facciamo, noi, che razzisti cerchiamo di non essere.