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Turismo: dal piacere del viaggio ai forzati del viaggio

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Nov 23, 2019

di Lorenzo Porta

Movimento: trasformazioni.

Un convegno internazionale a Firenze per discutere sull’arte, il paesaggio nella storia e nella contemporaneità.

Una premessa storica

L’Istituto di storia dell’arte di Firenze ( Kunsthistorisches Institut) ha una lunga storia di presenza attiva nella città fin dalla fine dell’Ottocento, quando il suo primo direttore Brockhaus ospita nella sua casa privata la sua sede, che dal 1912 si trasferirà nel Palazzo Guadagni. Questo Istituto si finanziava attraverso l’attività del Verein zur Förderung des Kunsthistorischen Instituts Florenz, un’associazione che aveva per scopo di finanziare le attività di ricerca sull’arte italiana antica e moderna. Le persone che vi hanno lavorato hanno attraversato le vicissitudini storiche del Novecento e le due guerre mondiali che hanno devastato la vita degli europei con conseguenze fortissime su molte popolazioni del mondo. Nel periodo della Prima guerra mondiale l’Istituto rimane chiuso e solo nell’agosto del ’22 Italia e Germania, nemiche nella “grande guerra” giungono ad un accordo affinché l’Istituto possa continuare a operare. Dalla sede presso gli Uffizi torna a Palazzo Guadagni.

Con l’avvento del nazismo in Germania e l’alleanza con il fascismo italiano l’Istituto subisce le pressione del governo tedesco nell’indirizzo degli studi. Nel periodo cupo della seconda guerra mondiale e nel corso della ritirata nazista dall’Italia nel 1944, con le stragi e le deportazioni della popolazione, in cui avvennero copiosi furti di opere d’arte, il patrimonio del Kunst fu trasportato in Germania e sotterrato a 180 metri sottoterra in una miniera di sale a Kochendorf, vicino a Heilbronn, Solo alla fine della guerra, durante la ricostruzione l’Istituto ritorna in Italia con il suo patrimonio, grazie anche all’impegno del filosofo e senatore della Repubblica Benedetto Croce. I libri e i documenti dell’Istituto ritornano quindi a Palazzo Guadagni, nel quartiere di Santo Spirito in Oltrarno. https://www.khi.fi.it/it/institut/geschichte.php

Dal 1961 l’Istituto si trasferisce nella sede attuale di Via Giuseppe Giusti nel palazzo Rosselli, di proprietà dei genitori dei noti attivisti antifascisti Nello e Carlo. La sede attuale si estende anche all’adiacente palazzo Capponi-Incontri. Dal 2002 l’Istituto entra a far parte della Max Planck Gesellschaft, un’istituzione molto importante nella storia della Germania del secondo dopoguerra. Tale istituzione si è posta all’avanguardia negli studi scientifici di fisica, matematica, medicina, scienze sociali e letteratura sviluppando riflessioni importanti sulla coscienza critica degli scienziati, con prese di posizioni coraggiose sul tema del riarmo nucleare, proprio in ragione di una riconsiderazione critica del ruolo della scienza e della tecnica nel periodo nazista.

http://www.mpg.de/history_mpg

 

Le attività dell’Istituto oggi e il recente convegno di settembre 2019 Motion: Transformation

La premessa storica ci consente di approdare alle attività odierne di questo istituto che, pur mantenendo un impegno profondo nello studio del grande patrimonio dell’arte antica e rinascimentale italiana, ha esteso ampiamente la sua documentazione e le sue raccolte di testimonianze artistiche fino alla contemporaneità, attraverso un’impostazione comparata ed interdisciplinare delle correnti artistiche a livello internazionale, molto lontana da una concezione eurocentrica della cultura. Oggi l’Istituto dispone di una biblioteca ed emeroteca di 360 mila volumi, di una fototeca posta nel palazzo Grifoni Budini Gattai, dove è disponibile alla consultazione un patrimonio di 620 mila foto che documentano l’arte italiana dalla tarda antichità all’età moderna fino agli sviluppi della contemporaneità. https://www.khi.fi.it/it/photothek/index.php

Questa impostazione interdisciplinare, comparata ed interculturale risulta evidente anche nell’ultimo Convegno mondiale di storia dell’arte, organizzato dal Comitato internazionale della storia dell’arte ( CIHA) assieme al Kunst nella prima settimana di settembre a Firenze. 1

Il titolo del convegno: Motion: Transformation, un momento di confronto mondiale sul movimento e la trasformazione nella storia dell’arte e dell’architettura antica, moderna e contemporanea, che per la prima volta ha già in programma la sua prosecuzione il prossimo anno in Brasile sul tema: “Motion: Migration”.

Il convegno ha avuto due momenti aperti a tutti, non solo agli iscritti, nella Sala de’ Cinquecento nelle serate del 2 e 3 settembre in cui sono convenuti, naturalmente, i relatori del convegno, tra cui alcuni ricercatori e ricercatrici italiane. In questo convegno di respiro mondiale, dove è possibile ai giovani estendere l’orizzonte del proprio sapere e conoscere il dibattito più recente in ambiti cruciali della riflessione artistica del passato e del presente, abbiamo notato una sparuta presenza di docenti e studenti fiorentini. Firenze con le sue bellezze storiche è un luogo di incontro dei dibattiti internazionali, ma accade che talvolta vengano perse occasioni di confronto tra i convenuti da tutto il mondo e gli studenti, i docenti e i cittadini che vivono questa città.

Il convegno si è svolto in lingua inglese e senza traduzioni, erano a disposizione gli abstracts per ogni singola relazione delle 9 sessioni in cui erano articolati i lavori. Sicuramente il livello delle relazioni era molto alto e specialistico, ma diversi interventi erano accessibili e mettevano al centro alcune tematiche dalle forti implicazioni sociali: il rapporto tra arte, potere e pubblico; l’arte e la natura, un processo di distinzione e compenetrazione; la religione e l’arte in una prospettiva transculturale; il viaggio: perché? per cosa? La ricerca di evasione e l’industria turistica del bello, il viaggio di affari, i forzati del viaggio: le migrazioni. Quest’ultima sessione anticipava il tema centrale delle migrazioni del prossimo convegno mondiale in Brasile nel 2020.

http://www.ciha.org/content/florence-2019-motion-transformation

 

Le politiche coloniali e le opere d’arte dei paesi colonizzati: gli inglesi in India tra la fine dell’Ottocento e l’indipendenza.

Uno dei due incontri aperti al pubblico2 è stato affidato a Kavita Sing, docente dell’Università di Nuova Delhi che ci ha dato un contributo chiaro e interessante sulla gestione delle opere d’arte indiane dell’Inghilterra imperialista, molto illuminante negli esempi riportati, a dimostrazione di una visione etnocentrica della classe dirigente della Gran Bretagna, condivisa da altre nazioni europee, del periodo della fine Ottocento fino alla fine del dominio colonialista in India. Nella sua relazione dal titolo: Movimenti indiani in movimento: dentro e fuori dal museo, la studiosa di Nuova Delhi mette in evidenza le pratiche consuetudinarie dei dirigenti inglesi della East India Company, condivisa con i loro omologhi delle altre nazioni europee, di trasferire in patria i pezzi rari e preziosi delle loro colonie, a partire dalla grande India, per “custodirli” nei loro musei. Questa è una pratica che coinvolge molti altri paesi, basti pensare alle antichità greche, a partire dal Partenone, che si trovano in buona parte nei musei britannici. Ma dal 1860 sir H. Cole, il direttore del Victoria ad Albert Museo ( d’ora in poi Museo V&A) vuole mitigare la caccia competitiva all’accaparramento degli originali dell’arte dei colonizzati, lanciando un progetto cooperativo tra 15 nazioni europee per realizzare i calchi in gesso (la cui tecnica era in forte progresso all’epoca), delle opere antiche delle loro colonie per esporle nelle mostre periodiche e in forma permanente nei musei di sua Maestà.

Il grande Stupa buddista di Sanchi ( II secolo a.C.) nel Madhya Pradesh come è tradizione per queste sacre costruzioni, ha quattro portali ai quattro punti cardinali. Il portale est è alto circa 10 metri, un capolavoro artistico artigianale costruito, penultimo dei quattro, all’inizio del primo secolo a.C. Nelle sculture degli architravi della facciata esterna vengono raffigurati episodi salienti della vita di Siddharta, in particolare la sua fuga dal palazzo paterno a cavallo. In un altro architrave viene riprodotta anche la visita del sovrano della dinastia Maurya, Ashoka, convertito al buddismo nel III secolo, all’albero Bodhi dove Siddharta ebbe l’illuminazione.3 Di questo importante portale i sir Henry Cole, comandante inglese di quell’area importantissima nel cuore dell’India, fece fare dei calchi in gesso molto fedeli all’originale, li distribuì e portò l’esemplare migliore al Museo V&A. Il capolavoro fu esposto nelle sale del museo dedicate all’arte indiana. La professoressa Sing nota che queste ed altre poderose opere d’arte indiane, compiono simili sorti alla volta dei musei dell’Inghilterra, capoluogo del mondo coloniale, per poi venire dimenticate o lasciate cadere a pezzi da parte dei dirigenti dei musei inglesi, quando l’India conquista la sua indipendenza, grazie al movimento di liberazione di ispirazione gandhiana. La cultura indiana antica per loro può cadere nell’oblio, quei calchi realizzati con grande cura possono scomparire, bastano gli originali!

 

( foto 1. Stupa di Sanchi: facciata interna);

 

(foto 2. facciata esterna )

Notevole e clamoroso è il caso delle cinque colonne dell’imponente colonnato del Forte di Agra, costruito da Sha Jahan, nei pressi della sua famosissima residenza, il Taj Mahal. I calchi in gesso di quelle colonne, di circa una ventina di metri di altezza, vengono trasportati a Londra in occasione della mostra coloniale delle Indie del 1886. Successivamente trovano posto nel Museo V&A, uno spazio notevole per l’imponenza dell’opera viene loro riservato, ma anche queste grandi testimonianze cadranno nell’oblio e nella trascuratezza degli inglesi nel periodo in cui perderanno il controllo dell’India ormai indipendente.

 

( Foto 3: interno del Forte di Agra )

La tematica delle influenze del colonialismo sulle opere d’arte si estende negli studi presentati al convegno anche alla trasformazione del paesaggio ad opera degli interventi dei colonizzatori. Questo è un campo di studi particolarmente sviluppato dal Kunst, molto considerato anche in riferimento al tema “estetica ed ecologia” attraverso i secoli fino alla contemporaneità in diverse aree del pianeta. Dagli esempi di mutamenti del paesaggio nell’Africa subsahriana occidentale ad opera del colonialismo francese e tedesco, ai mutamenti dell’ambiente californiano agli inizi del ‘900 il paesaggio viene studiato sempre più nel suo intreccio tra la natura, l’intervento umano e le architetture che nel corso dei secoli modificano e talvolta lo stravolgono.

https://www.khi.fi.it/it/forschung/abteilung-wolf/ecology-and-aesthetics-environmental-approaches-in-art-history.php

 

Le distruzioni di opere d’arte e il rapporto con la memoria storica dei paesi colpiti

Nella ottava sessione del Convegno, intitolata “il fantasma nella macchina”, la scomparsa degli artisti, dei critici e degli spettatori ( titolo ripreso dal famoso libro di Arthur Koestler), l’intervento Di José A. Gonzàles Zarandona della Deakin University di Melbourne affronta il tema della distruzione della tradizione e dell’iconoclastia nel dibattito dell’arte contemporanea in Siria, Iraq, Afganisthan ed altri luoghi del mondo. Le guerre recenti e meno recenti hanno provocato distruzioni di persone e culture come nella zona babilonese fin dalla prima guerra del Golfo (1990) così come nelle sanguinose guerre in Siria, nello Yemen del sud, in Afganisthan dove le autorità talebane hanno compiuto distruzioni delle statue di Buddha a Bāmiyān. Le immagini filtrate dai grandi media ci mostrano scene di distruzione, queste scene diventano in alcuni casi materiali che gruppi di ricercatori, avvocati ed architetti,  come la Forensis Architecture ( Londra) presentano nei musei come opere d’arte, senza la presenza di artisti. Zarandona si sofferma su quegli aspetti della distruzione che provocano la perdita di memoria storica  e il rafforzamento dell’amnesia sociale che vuole allontanare da sé le cause delle guerre, le responsabilità non solo dei paesi autoritari coinvolti, ma anche delle nostre democrazie formali.

 

Il viaggio: il viaggio di piacere, d’affari, il turismo di massa, i “forzati del viaggio”

L’ultima sessione, ma non per ordine di importanza, è dedicata al viaggio e alle diverse tipologie di viaggi.  Gerhard Wolf, direttore del Kunst e studioso impegnato su tematiche come le catastrofi naturali, ecologiche, frutto della violenza di guerra, la memoria storica e i criteri di ricostruzione e recupero della cultura e dell’arte dispersa e violata. Il suo contributo dal titolo, “Oltre il viaggio” ha fatto riflettere sugli itinerari di viaggio. Viviamo in un mondo in forte mobilità, ma le rotte marittime e terrestri caratterizzano i tipi di viaggio e i soggetti che li intraprendono. Le grandi aziende del turismo confezionano i pacchetti di viaggio per i turisti con i loro veicoli specifici, dalle enormi crociere  che entrano nei porti a basso fondale delle città d’arte, come Venezia. Ha affrontato  il fenomeno del  duck tourism, che fa uso di mezzi militari anfibi ristrutturati che compiono giri mirabolanti nelle città, passano dalla terra all’acqua e spesso causano incidenti sulle strade per le loro dimensioni abnormi. Gerhard Wolf ha mostrato immagini delle strade della Costa Azzurra , la zona della Corniche , dove ha messo in evidenza la grande autostrada aperta al transito regolare di turisti, uomini d’affari e cittadini con le carte in regola e la strada prossima al mare dove, al confine tra Italia e Francia si ammassano i migranti che chiedono di attraversare il confine, ma vengono respinti.

Ventimiglia, ma anche Calais-Dover, le rotte balcaniche  calcate da siriani, afgani, pachistani che trovano barriere chiuse nelle loro lunghe traversate a piedi e con mezzi di fortuna, in fuga da guerre e calamità naturali. La rotta mediterranea con le barche gremite di migranti alla ricerca di un approdo.

Riflessioni che mettono in discussione le impostazioni di un organizzazione mondiale del turismo che punta alla crescita illimitata senza tener conto della sostenibilità e compatibilità dello sviluppo quantitativo. Le città d’arte come Firenze si danno come obiettivo l’aumento quantitativo del turismo di massa: siamo arrivati già a12 milioni annui di presenze (2018). Al contempo assistiamo agli effetti crescenti dei forti squilibri delle ricchezza, delle risorse e del rispetto dei diritti umani che provocano forme coatte di spostamenti di fronte a cui vengono erette barriere che non possono fermare un movimento così poderoso. Ma tutto ciò confluirà nel convegno in Brasile del prossimo anno: Motion: migration.

Lorenzo Porta

per “ Azione nonviolenta

 

1 Il comitato italiano afferente al Comité International d’Histoire de l’Art è una organizzazione sorta nel secondo dopoguerra, il cui statuto fu redatto da noto storico dell’arte Giulio Carlo Argan con lo scopo di promuovere la cultura e l’arte nella società. La sezione italiana ha svolto un’opera di contatti internazionali i cui esiti sono emersi nei convegni internazionali dei decenni passati, da Bologna (1979), Melbourne ( 2008) fino all’attuale convegno. Presidente della sezione italiana è Marzia Faietti.

2 L’altro incontro aperto al pubblico era una Tavola rotonda tra studiose e studiosi europei con Vera Agosti, Valerio Adami, P.J. Schneemann e T. Dufrene sul tema del convegno: movimento: trasformazione.

3 Il re Ashoka è famoso per gli editti scolpiti su pietre e pilastri, in particolare l’editto XIII, nel quale esprime pentimento per le sofferenze inferte alla popolazione Kalinga che aveva sottomesso in una spedizione militare del 260 a.C. In quell’editto fa riferimento alla nonviolenza come atteggiamento da praticare nella vita.

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