• 22 Novembre 2024 10:42

UA e UE

DiDaniele Lugli

Nov 14, 2022
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L’Unione Africana ha più di vent’anni. È nata il 9 luglio 2002 a Durban, ha sede ad Addis Abeba. Raccoglie tutti i paesi dell’Africa.

Un risultato concreto è la realizzazione del più grande accordo di libero scambio. Gli obiettivi di sicurezza, buongoverno, transizioni democratiche, posti a fondamento dell’istituzione, sono invece disattesi. Tuttavia un buon risultato l’ha conseguito. Giusto due anni dall’inizio ha promosso un “cessate il fuoco permanente” in Etiopia, firmato a Pretoria il 2 novembre scorso. Niente del genere è alle viste, ad opera dell’Unione Europea, per fermare la guerra scatenata dall’aggressione della Federazione russa.

Del conflitto etiope qualcosa ho scritto. Oggi, in una tregua da trasformare in pace, possiamo misurare almeno in parte la distruttività. Si stimano tra i 350mila e il mezzo milione i morti, tra i combattenti e i civili massacrati o deceduti per il blocco degli aiuti umanitari. Gli sfollati sono almeno due milioni. In due anni si sono raggiunte le spaventose cifre della guerra in Siria (11 anni) e in Yemen (7 anni). È un orrore passato quasi sotto silenzio nella censura imposta da Addis Abeba. Aggiungo che cinque milioni sono quelli che dipendono dagli aiuti per sopravvivere e il 2022 è stato indicato dall’Unione Africana come anno della nutrizione. Secondo gli ultimi rapporti nel 2021 un africano su cinque soffre di fame cronica (278 milioni, 50 milioni in più rispetto al 2019); nel Corno d’Africa 10 milioni di bambini, sotto i 5 anni, sono estremamente malnutriti; il 37% dei bambini rachitici di tutto il mondo sopravvive nell’Africa Subsahariana. Pessime sono le prospettive, considerando le conseguenze del Covid e della guerra in Ucraina, con la Russia tra i maggiori fornitori di grano in Africa.

Completata la decolonizzazione, almeno nelle sue forme più evidenti, i nuovi stati, “indipendenti e sovrani”, si sono posti l’obiettivo di una unione continentale: mercato comune integrato, banca centrale, esercito africano. Siamo oltre le stesse finalità dell’Unione Europea. L’Unione Africana attribuisce alla Conferenza dei capi di stato i poteri decisivi, alla Commissione compiti esclusivamente tecnici, al Parlamento panafricano un ruolo solo consultivo. Con simili istituzioni, a prescindere da altre difficoltà, il fallimento degli obiettivi è assicurato. Tra questi segnaliamo la “promozione dei principi e delle istituzioni democratiche, la partecipazione popolare e il buon governo, la promozione e protezione dei diritti umani, l’uguaglianza di genere, il rispetto per la sacralità della vita, la condanna dell’impunità e dell’omicidio politico, degli atti di terrorismo, delle attività sovversive, dei cambiamenti incostituzionali di governo”. La Corte africana per i diritti umani e dei popoli è però bloccata. Solo 32 paesi, su 55, hanno ratificato il protocollo e solo 8 accettano la sua giurisdizione per le denunce dei cittadini. Né è autorizzata a indagare i presidenti in carica.

L’Unione Europea avrebbe potuto dare consigli per un migliore assetto istituzionale e stabilire un rapporto economico più stretto, con veri e propri interventi sul tipo del Piano Marshall. Ogni Paese europeo ha invece perseguito e persegue propri obiettivi di presenza e di interesse, non l’Italia, che fa il possibile per danneggiarsi, come con la guerra alla Libia, salvo poi finanziarne i campi di concentramento e tortura per migranti. Un sostegno consistente e ben mirato europeo avrebbe giovato, e gioverebbe, all’autorevolezza dell’Unione Africana e avvierebbe la sola, possibile risposta alle ondate migratorie fuori da ogni serio controllo. Tale non sono certo le vergognose rappresaglie alle ONG, colpevoli di salvataggi in mare.

Così altri interlocutori si sono interessati all’Africa. La Cina in particolare da anni è il principale partner commerciale, anche con forti investimenti infrastrutturali. Le banche di sviluppo cinesi prestano più del doppio rispetto a quelle di Stati Uniti, Germania, Giappone e Francia messe insieme. La Russia ha una fitta rete di rapporti commerciali con la maggior parte dei paesi dell’Africa e aumenta i propri investimenti. Inoltre la Russia è il principale fornitore di armamenti e detiene la metà del mercato, più del doppio di Cina e Stati Uniti. Da 10 anni il tema della sicurezza è preponderante nella politica russa in Africa. Ci sono accordi con una ventina di Paesi per l’addestramento di ufficiali a Mosca, la consegna e manutenzione di attrezzature militari, esercitazioni congiunte, la lotta contro il terrorismo e la pirateria marittima.

Non meraviglia il voto degli stati africani il 2 marzo 2022 all’Assemblea generale dell’Onu. L’Unione Africana aveva chiesto, anche prima dell’invasione, il rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità dell’Ucraina. Metà degli stati africani si sono astenuti o non hanno partecipato alla votazione – l’Eritrea ha votato contro – sulla risoluzione per la cessazione immediata dell’uso della forza della Russia contro l’Ucraina. 141 Paesi hanno approvato la risoluzione, 5 si sono opposti e 35 si sono astenuti, tra loro 25 Paesi africani.

Per tornare alla guerra in Etiopia è chiaro che passare dalla tregua, sospensione delle ostilità, alla pace è un percorso irto di difficoltà. Già si lamentano violazioni. Al presidente etiope è data l’occasione per meritare il premio Nobel per la pace, che gli è stato dato troppo frettolosamente. Molte sono le parti coinvolte nel conflitto, molti sono gli aspetti da chiarire in un serrato confronto. È di buon auspicio che l’Unione Africana sia nata in Sud Africa e che lì sia stata firmato il “cessate il fuoco”. Il paese del più lungo e spietato apartheid è anche quello della Commissione per la Verità e Riconciliazione. Anche questo occorre prevedere al termine dell’aggressione all’Ucraina. Senza non vi è pace possibile. Quel che sta avvenendo in Kosovo lo riprova. Intanto bisogna far cessare il fuoco, non alimentarlo.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2023), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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