La lettura di questo libro, scritto da un giovane sardo, di Alghero, mi ha dapprima stupito, quindi confortato e, infine, perfino entusiasmato. Lo stupore mi è nato per lo stile narrativo dell’autore, appena diciottenne eppure capace di mettere insieme, senza far confusione, poesia e saggistica, una contaminazione apparentemente complicata, ma che in questa circostanza scorre semplice e fluida: ogni capitolo presenta una prefazione poetica che, a mio parere, contribuisce in modo significativo, dando un tocco di visione intima a problematiche sociali, politiche ecologiche di più generale portata.
“Umani divisi dalla smania di potere, / Bendati da fili di bandiere.
Orgasmi freddati / Da enormi galere”.
Il conforto l’ho provato già scorrendo i primi capitoli, non appena mi sono reso conto che l’approccio del giovane autore al pensiero anarchico era non solo politico, ma anche etico ed esistenziale. “Nella libertà il caos è nullo. Poiché la libertà si fa generatrice di responsabilità, senza delegazione di questa, che porti ad accumulare furti di libertà e responsabilità nei pochi per gestire vanamente i tanti.” Questo significa che l’anarchia non può essere vissuta alla leggera, come mera bandiera ribellistica, bensì implica una forte assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri.
L’entusiasmo mi ha colto leggendo di una “rivoluzione culturale e nonviolenta”, laddove Grosso entra dentro i secolari dilemmi dell’anarchismo sui mezzi rivoluzionari. Per lui l’anarchia è una filosofia di vita, perché “il sogno, prima del connubio con la realtà, deve trovare il connubio con la nostra anima. Amiamoci, e saremo anarchici.” L’autore ha la lucidità e l’integrità per restare sempre fuori dai luoghi comuni e dagli stereotipi ideologici: non ha paura di sollevare l’istanza di una rivoluzione anarchica che sia nonviolenta, culturale piuttosto che armata, creativa piuttosto che militare. “L’ obiettivo del potere è di dominare. E se questo sentimento non viene estirpato radicalmente con la rivoluzione pacifica, la rivoluzione armata lo alimenta, entrando in uno scontro frontale, calandosi dentro all’angusto campo di battaglia in cui lo Stato, l’essenza e l’esercizio per eccellenza della violenza, parte in un modo o in un altro sempre avvantaggiato”, ci dice l’autore. Quindi le rivoluzioni armate sono controproducenti e, come ci insegna la Storia, aggiungo io, portano da un lato a repressioni più violente, dall’altro alla seduzione che le armi e il potere possono esercitare, annientando le parti migliori della nostra umanità. E infatti Cristian aggiunge: “Ma ciò non è il solo motivo di tale mio rifiuto della violenza. Ma è soprattutto la coerenza anarchica che cede”, rendendo “pallida e incoerente la vittoria”; qui mi sovviene la famosa frase di Errico Malatesta: “Se per vincere dovessimo alzare le forche nelle piazze, preferirei non vincere”.
L’autore si concentra anche sul rapporto fra umanità e natura e fra corpo e spirito e lo fa in modo semplice e chiaro e pienamente dentro la tradizione anarchica “né dio né padrone”. Quando afferma di rifuggire dall’idea di un essere supremo, dio delle religioni monoteiste, ci ricorda che la religione come idea istituzionalizzata è un’educazione alla non responsabilità, alla delega spirituale, che porta ad “un’umanità rassegnata che con mani tese cede il proprio destino e ogni proprio desiderio al suo Dio. La sua vita. E ciò frena biecamente l’evoluzione sociale, intima e personale. In una fuga dalla responsabilità”. Eppure Cristian non elude la domanda spirituale con precotte affermazioni ateo-razionalistiche. Arriva limpido al dunque: alla natura madre, al suo panteismo, “così da non distogliere lo sguardo ad ogni attimo d’amore che compone teneramente la natura, per tutta la nostra vita”. Oppure, ci ammonisce con una chiusura cocente: “vuoi davvero dare i tuoi occhi a colui che ti opprime?”
All’autore è ben chiaro che la lotta ambientale non può essere separata da quella sociale, perché sono proprio gli enormi profitti a depredare la natura e insieme a sfruttare i lavoratori, umiliando i più deboli e conferendo ricchezze esagerate a pochi. Nel libro vengono considerati numerosi nodi cruciali del sistema: dalle carceri alle basi militari, dal lavoro alla scuola. “La cultura dovrà essere un profondo e leggero vento che sfiori lievemente le genti, ma che arrivi al giusto punto stimolando sempre di più la curiosità”. Nel complesso il testo risulta ben articolato, giustamente sintetico nei passaggi e scorrevole, quindi di facile lettura, nonostante il peso degli argomenti trattati.
Da un punto di vista nonviolento, considero l’opera di Cristian Augusto Grosso un testo importante per approfondire le affinità tra anarchia e nonviolenza. Il fatto che poi venga da un giovane autore, può far ben sperare per il nostro futuro, perché i giovani sanno comunicare coi giovani, ben più di quanto possano adulti e anziani. Mentre scorrevo le pagine di questo libro, mi ha raggiunto la compresenza del compianto grande amico, studioso e attivista della nonviolenza Alberto L’Abate, con cui organizzai nel giugno del 2017 un seminario di studi alla Casa per la pace di Ghilarza su Anarchia e Nonviolenza. Sono certo che anche lui avrebbe letto questo libro con grande interesse.
Carlo Bellisai, marzo 2021.