Chi sei? Sono la morte. Sei venuto a prendermi? È già da molto che ti cammino a fianco. Me n’ero accorto. Sei pronto? È il mio corpo che ha paura non io. Be’, non c’è da vergognarsene.
È il dialogo iniziale del Settimo sigillo.
Quante volte ne abbiamo parlato. Ci piaceva Bergman. Io preferivo Il posto delle fragole, ovvero La fine del giorno, anch’esso una meditazione sulla morte, cioè sulla vita, e, inoltre, sul mistero della vecchiaia. Io avevo vent’anni e Neno non ancora trenta. Potevo vederlo come Antonius Block, e non solo per la sua figura che richiamava quella del Cavaliere, ma per l’interrogarsi profondo e sofferto sul senso del vivere, sul bisogno stesso del senso, sulla partecipazione a vite e sensibilità diverse dalla sua, sulla possibilità di vedere attraverso una realtà opaca e ambigua, sul ruolo dell’arte, sul valore che sta nella relazione. Io stavo piuttosto dalla parte dello scudiero Jons, che non gioca, non sa giocare, a scacchi con la morte, di fronte alla quale, infine, accetta di tacere: Farò silenzio, ma di protesta.
Da 14 anni Neno sapeva di avere la morte a fianco. La conferma aveva chiesto a me di portarla e io l’avevo fatto. Poi, come Antonius Block, si è impegnato in una partita, durata 14 anni, che ha avuto come scacchiera il suo corpo.
Prima dello scacco matto la morte chiede al Cavaliere: “Sei rimasto contento della proroga? Sì, sono contento”. Ho sentito Dina, nella disperazione della perdita, ringraziare per il dono di questi anni.
La cosa che di lui non poteva non colpire era l’intelligenza acutissima, accompagnata da una tensione etica che ne impediva ogni uso di sopraffazione.
Quando t’ho conosciuto? mi ha chiesto l’ultima volta che ci siamo rivisti a casa sua, il giorno prima del ricovero. È stato nel ’60 e, fino al ’72, è stato un tempo di grande condivisione nella passione e nella pratica politica, nel lavoro, nell’impegno sociale, oso dire educativo, nella ricerca di un’etica fuori da ogni certezza confessionale.
Il cinema appassionava entrambi. Mi ha insegnato ad apprezzare Antonioni, che già un po’ mi piaceva. Nonostante Adorno, che gli devo, poco ha potuto fare per correggere la mia sordità alla musica. Letture parallele abbiamo condotto, lui spesso era molte pagine più avanti: Musil, Mann, Hegel, Kant, Marx, Horkheimer, Lukacs, e negli ultimi anni Kung, Jonas, Rawls. Ne abbiamo discusso. Le abbiamo proposte ad altri. Abbiamo vagheggiato imprese culturali: riviste, saggi, fermandoci ai titoli, un’associazione culturale, chiamata La cicuta. Qualche piccola cosa insieme l’abbiamo fatta.
Avrebbe potuto dare molto di più alla vita pubblica, per la quale aveva una forte passione, ma intelligenza e tensione etica, prive di riguardi, non sono il viatico migliore. Avrebbe potuto essere un ottimo insegnante, e lo è stato in vari campi per chi l’ha frequentato. L’ho fatto conoscere a tutti i miei amici, che hanno trovato preziosa la sua amicizia.
Quando la frequentazione, per molte ragioni, si è diradata fin quasi a cessare, non si è mai spezzato il filo che ci ha unito. In ogni momento di difficoltà, e pena, ci siamo cercati e ci siamo sempre trovati.
Aveva nei miei confronti una cura e sollecitudine immeritate. Con lui predisponevo la bozza di quello che sarebbe diventato il primo Statuto della Provincia di Ferrara, dopo la riforma del ’90. Insisteva per concludere il lavoro con un’urgenza che io non comprendevo. Ci vedevamo al sabato pomeriggio, alla domenica mattina, per lavorare in tranquillità e non mi segnavo gli straordinari. Potrebbero accusarti di interessi d’ufficio in atti privati, mi diceva. Voleva finire il lavoro prima del responso degli esami che dovevano condurlo all’operazione. Lo imparai quando mi chiese di informarmi dell’esito.
Quando, dopo una lunga assenza, dagli ultimi anni ’70 ai primi ’90, mi feci tentare di nuovo dalla politica istituzionale formulò un invito a votarmi che, per affetto e apprezzamento manifestati (condiviso da amici), è valso la fatica di quella campagna. Parlai di quella scelta come di una ricaduta nel vizio, in un gioco che non si può vincere e neppure abbandonare. Mi disse allora: Non si può neppure perdere. E aveva ragione.
Non ha lasciato molti scritti. Brevi dialoghi e aforismi ci siamo scambiati negli anni ’60. Mi invitava a scrivere e poi annotava: Manca la volontà e il tempo per scrivere. Teneva qualche appunto privato, ma L’ozio è il padre dei diari. Ricordo i suoi inviti alla coerenza: Non è doveroso essere socialisti, salvo che nel Partito Socialista, all’impegno culturale: I concetti non li portano le cicogne, all’autoironia: Non ditemi che sono cieco, ché me ne accorgo con i miei occhi.
Il suo ritiro e silenzio degli ultimi anni lo ritrovo preannunciato in un dialogo di quaranta e più anni fa: “Il vero educatore, oggi, non educa; tace. Si rifugia forse nella vita privata? No. E dunque…Se il problema avesse una soluzione non tacerebbe. Ma vive. Onde, appunto, il problema”.
Anche dell’ultimo colloquio, che ho avuto con lui il giorno prima della morte, leggo come un presagio in uno scritto di allora: “Il presentimento. Hai aperto gli occhi? Per vederti. Avrò tanto tempo per tenerli chiusi”.
Ricordo l’incontro dell’otto dicembre. Sono ai piedi del suo letto in ospedale. Ha aperto gli occhi e con dolcezza dice “Non ti avevo visto. Sono appena arrivato. Cosa combini? Domattina ad Argenta a parlare di democrazia partecipata a dipendenti comunali, il pomeriggio a Fiesso, a un Consiglio comunale aperto ai ragazzi, a parlare di Diritti umani”. Chiude gli occhi, sembra riassopirsi, ma li riapre “Che letture usi e proponi?” Rispondo e mi pare di cogliere un cenno di approvazione.
Alla fine del film il cavaliere Antonius Block torna dalla moglie: “Adesso è finita e sono un po’ stanco. Lo vedo che sei stanco. Sono venuto con degli amici. Falli entrare”, dice la moglie.