Roma, 19 novembre 2015 – Per la collocazione particolare dei nostri volontari e cooperanti, sui ponti che legano l’Europa al Medio Oriente e ai Balcani, sentiamo personalmente gli scossoni di ogni attentato terroristico e di ogni bomba lanciata da aerei militari.Certamente l’identificazione è maggiore quando le vittime sono i ragazzi di Parigi, o gli attivisti di Ankara, ma il dolore è lo stesso quando Daesh (IS) colpisce civili libanesi o turisti russi, quando le bombe di Assad uccidono in un giorno 100 persone ad Aleppo, o quando le bombe russe colpiscono ospedali a Idlib, zona in cui i Russi hanno usato anche armi al fosforo bianco, come fecero gli Israeliani su Gaza o gli Americani a Falluja.
La preoccupazione ci attanaglia verificando che i mezzi per colpire Daesh continuano ad essere prevalentemente militari, e che non si vedono all’orizzonte piani di sostegno a servizi sociali e creazione di occupazione nelle periferie d’Europa, dove nascono e crescono giovani disadattati, che con una pasticca di anfetamina possono diventare terroristi. Inoltre con il decreto missioni in via di approvazione l’Italia autorizza le forze speciali a muoversi in missioni segrete come gli 007 all’estero. Pur consci che operazioni di intelligence sono necessarie per affrontare la minaccia di Daesh, temiamo che questo emendamento possa consentire di fatto ai militari italiani di iniziare un’operazione in Libia, che avrebbe anche l’obiettivo di fermare gli imbarchi di profughi verso l’Italia come prevede l’operazione EUNavfor Med, anch’essa finanziata da questo decreto missioni.
Già avevamo illustrato la nostra critica all’impianto del decreto missioni in un’audizione di Un ponte per… ed Emergency alle Commissioni Esteri e Difesa della Camera, l’11 novembre 2015. Clicca qui per vedere il video.
Ma oggi vogliamo far parlare i nostri cooperanti e volontari che tengono in piedi i ponti per l’Iraq, il Libano, il Kosovo, partendo da una di loro che si trovava a Parigi la notte degli attentati, a 500 metri da uno dei ristoranti colpiti. Sono queste voci che ci fanno capire quanto la cooperazione possa destabilizzare la logica del terrorismo, e quanto invece la guerra lo alimenti.
Voci dal Ponte:
Come mi sento? Grata! Prima di tutto sono grata per essere viva e perché lo sono anche Florent e nostro figlio Olivier, sono grata per aver scelto di restare a casa questo venerdì sera così stranamente caldo. Sono grata a Un ponte per… perché negli anni da volontaria ho avuto modo di conoscere e stringere autentici legami di amicizia con tanti amici da tutto il Medio Oriente, e ho acquisito strumenti per comprendere e conoscere e non cedere alla paura dell’altro. Quanto male deve stare un giovane francese per decidere di andare ad addestrarsi in Siria, tornare in Francia e farsi saltare in aria? Quanto poco deve credere nel valore della sua vita, della vita degli altri e della vita in generale? Io credo che l’arma più forte, le bombe che si dovrebbero sganciare, sono delle reali politiche di integrazione, occupazione giovanile e lotta alla povertà. Ho passato la notte di venerdì sveglia, con le sirene delle ambulanze che passavano sotto casa cariche di feriti da portare all’ospedale qui vicino. Sdraiata nel letto ho continuato ad immaginare come poter spiegare ad una classe di bambini quello che stava succedendo. Quali attività fare, come coinvolgere i genitori per trasformare tutti insieme la paura che attanaglia il cuore. Mi sono venute mille idee che spero di realizzare il prima possibile. La nonviolenza è la risposta e noi abbiamo la fortuna di sapere che funziona.
(Valeria, da Parigi)
Tra tutte le riflessioni solitarie e collettive di questi giorni e il bisogno di reagire, prende corpo l’urgenza di portare avanti con ancor più determinazione le battaglie in difesa e per i diritti: il diritto allo studio, il diritto al reddito, alla libertà di movimento e ad un’accoglienza degna per chi fugge dal proprio paese alla ricerca di un luogo dove costruire il proprio futuro. Tutto ciò credo vada fatto con una consapevolezza sempre maggiore della complessità dell’epoca in cui viviamo. Un’epoca dove il “qui” e il “lì” non possono essere più distinti e devono piuttosto essere parte di un nuovo linguaggio – comune – da ricostruire. Un linguaggio che si riappropria, contro ogni “stato d’emergenza”, di spazi di agibilità in cui indignarsi ma anche nei quali continuare a lottare per i diritti di tutti e, sempre, contro la guerra.
(Giuliana, dall’Italia)
Parigi, Beirut. Penso che quello che è successo in quelle città sia dovuto agli stereotipi dell’Occidente riguardo all’Islam, al suo neo-colonialismo, alle dittature presenti nei paesi arabi, alla debolezza della società civile qui e là, e alla povertà. Queste e altre ragioni politiche spingono persone comuni in Medio Oriente a unirsi a gruppi estremisti e programmare attacchi terroristici. Migliaia di persone in Medio Oriente sono solidali con i francesi oggi, ma molte altre sono intimamente soddisfatte per il dramma causato dai terroristi e sperano che gli attentati continuino a colpire il cuore dell’Occidente. Tanti qui odiano l’Europa perchè attribuiscono alle vostre potenze la colpa delle tragedie che stanno vivendo. Penso che le comunità dell’Occidente e dell’Oriente abbiano bisogno di maggiore comprensione e rispetto l’una dell’altra a partire dalle basi, e i protagonisti di questo processo devono essere i leader delle comunità, gli attivisti di società civile, le associazioni, i giovani e le donne.
(Husam, dall’Iraq)
Quando ho letto la notizia dell’attentato di Beirut la prima reazione è stata umana: preoccupazione per il mio compagno, che si trovava lì. Quando Parigi è stata attaccata è successa la stessa cosa: ho scritto ai miei amici per accertarmi che stessero bene. Perché la verità è che ci colpisce ciò che ci spaventa: perdere i nostri cari, sentirci in pericolo. Poi mi sono guardata intorno. Ho guardato i colleghi di Un ponte per… con cui condivido da due settimane ogni giornata. Iracheni e siriani costretti a fuggire dalla violenza nei loro paesi. Insieme a mogli, sorelle, figli piccoli, parenti, amici. Scappati da una Siria in guerra, dagli attentati di Baghdad, dal terrorismo di Daesh. Ho pensato al loro coraggio, e all’indifferenza con cui ignoriamo il loro dolore. Ho pensato che le emozioni di gioia, paura, fiducia, speranza, sono uguali ovunque. Che le vite hanno tutte lo stesso valore. E che se non capiremo questo, se non saremo capaci di imporlo ai nostri governi, continueremo a commettere sempre gli stessi errori, chiamando le nostre persone care “vittime” e quelle degli altri “effetti collaterali”. Da parte nostra, non dobbiamo stancarci mai di continuare a lavorare per costruire pace, dignità, giustizia sociale. Prendendo esempio dalla forza e dal coraggio dei nostri amici iracheni e siriani.
(Cecilia, dall’Iraq)
“Mondo! La vostra vergognosa inazione darà vita a migliaia di Bin Laden”, questo scrivevano gli attivisti del villaggio siriano di Kafranbel in Siria il 24 Febbraio 2012, ragazzi laici in lotta contro la dittatura. Sono queste le parole che rimbombano nella mia mente da quando la repressione cieca del regime di Bashar al-Assad ha schiacciato i movimenti che chiedevano libertà, riforme e rispetto dei diritti umani. Rimbombano ogni giorno: quando i barili bomba colpiscono i civili in Siria. Quando i miliziani di Daesh attaccano donne, bambini, uomini perché non si sottomettono alla loro ideologia malata o i giornalisti, che quella ideologia cercano di denunciare. Quando il terrorismo colpisce, mietendo vittime innocenti. Accada ad Ankara, Beirut, Parigi… La paura può essere sconfitta solamente dalla consapevolezza di aver fatto tutto il possibile per combattere contro quei dittatori e quelle ideologie che alimentano l’odio, le discriminazioni e il terrore. E per farlo l’unica via è trovare il coraggio di aprire gli occhi e agire.
(Giacomo, sulla Siria)
Negli ultimi tre anni a Beirut ci sono stati nove attentati. L’ultimo, il giorno prima di Parigi, è stato il più grave. Attualmente il Libano è il paese con il più alto tasso di rifugiati pro capite al mondo e qui i riflessi della guerra in Siria sono particolarmente rilevanti anche alla luce delle ragioni storiche che hanno visto questi due paesi legati a doppio filo. Si tratta dell’ennesimo attacco al partito di Hezbollah che combatte a fianco di al-Assad, in difesa del regime siriano, e in molti dicono che di attacchi come questo ce ne saranno ancora. Ma pochi notano che, nonostante le notevoli difficoltà che il paese ha dovuto affrontare negli ultimi anche in termini di politica interna, il tessuto sociale libanese estremamente variegato ed eterogeno ha saputo resistere. Riuscite a immaginare cosa sarebbe successo in Italia se fossero arrivati in tre anni un milione e duecentomila rifugiati? Ho parlato con i miei colleghi libanesi e palestinesi dopo i fatti del 12 novembre e tutti mi hanno detto la stessa cosa: come sia importante per la società libanese restare unita in questo momento. E’ un messaggio di speranza, ed io mi unisco al loro coro. (Paola, sul Libano)
Le contraddizioni sfociate nel massacro di innocenti avvenuto in questi giorni in Francia le leggo da anni anche in Kosovo e Metohija, apparentemente “liberato” dalle bombe della Nato del ’99 e “normalizzato” dalle successive politiche targate USA/UE. La regione, sottratta alla Serbia in barba alla risoluzione ONU 1244, vede oggi la componente serba fortemente minoritaria dopo le espulsioni e i pogrom, e vive una situazione di vero e proprio apartheid. Questa coinvolge anche tutto il patrimonio culturale ortodosso, ancora in molti casi difeso dalla presenza di contingenti della NATO fra i quali quello italiano. Una presenza che non impedisce al fanatismo etnico di lasciare sui muri del più importante monastero serbo-ortodosso, quello di Visoki Decani, scritte inneggianti a Daesh. Incurante di queste minacce ad un patrimonio culturale plurisecolare, straordinaria testimonianza della storia serba, l’Italia si è espressa recentemente a favore dell’ingresso in UNESCO (richiesta respinta per pochi voti) del Kosovo monoetnico albanese. Nel frattempo scuole coraniche e moschee continuano a sorgere grazie ai finanziamenti provenienti da paesi come l’Arabia Saudita e, nel silenzio più assoluto, vengono spesso individuati (raramente arrestati) fanatici che si arruolano in Siria o dove richiesto a fianco di Daesh. In questo quadro, l’Italia riesce a finanziare militari a difesa di quei luoghi sacri che vengono però attaccati da coloro che continua a sostenere in politica estera. Contraddizione del nuovo (e vecchio) millennio. (Alessandro, sul Kosovo)