Sette dei morti sono della minoranza albanese: siamo nella Piana che porta il loro nome, a pochi chilometri da Palermo. Da un mese è tutto un fiorire di ginestre (jinestrës o spartavet se preferite), che danno il nome al luogo. Leggo che sta tra i monti Kumeta e Maja e Pelavet (Pizzo delle Cavalle) sotto il monte Pizzuta. Passata la fioritura a caratterizzarla restano solo grosse pietre calcaree: La ginestra o il fiore del deserto, ha del resto scritto il nostro miglior poeta e pensatore.
Non sono mai stato a Portella, ma con compagni, albanesi di Calabria, in luoghi straordinari pieni di ginestre abbiamo fatto festa, mangiando e bevendo meravigliosamente. Mi sono pure piaciute le canzoni, in una lingua particolarmente dolce, l’arbëreshe, l’albanese meridionale di mezzo millennio fa. Posso dunque vederle le famiglie giungere nella vallata, portando i cibi e le bevande migliori per festeggiare assieme il Primo maggio, come avevano sempre fatto, anche quando era proibito. Così avevano fatto anche i nostri lavoratori, nelle nostre valli, dove non c’erano montagne ma solo acqua. Forse posso addirittura sentire gli spari, le urla, il dolore.
Sciascia diceva che dalla strage di Portella della Ginestra l’Italia è un Paese senza verità. Rosy Bindi e Pietro Grasso, leggo, si sarebbero impegnati perché siano messi a disposizione tutti i documenti finora riservati. Sappiamo perché i responsabili tengano nascosta, quanto possono, la verità. Lo accenna il poeta aggiungendo sotto il titolo “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. Giovanni, 3, 19, e il testo prosegue “perché le loro azioni erano malvage”. Sappiamo anche perché sono stati uccisi. Lo sappiamo già e bene. Ai mali che la natura infligge non volevano l’aggiunta del dolore causato dalla prepotenza dei padroni e dei loro servi. Consiglierei di rileggere la Ginestra con particolare riguardo ai passi tra il 111 e il 157. Il motivo è sempre lo stesso che ha portato alla morte dei loro compagni in Polesine e altrove 25 anni prima. Ce lo ricorda Matteotti: “Furono uccisi perché vollero essere fra i primi a dire la parola dell’unione, della buona battaglia incruenta in nome dell’Ideale. Furono uccisi, perché alzarono il capo dalla terra e guardarono in faccia il signore. Perché dissero: Siamo legati alla gleba che amiamo, ma non siamo servi del nostro simile”.
Un consiglio finale. Leggete, sottovoce, i nomi degli undici morti: Margherita Clesceri (37 anni), Giorgio Cusenza (42 anni), Giovanni Megna (18 anni), Francesco Vicari (22 anni), Vito Allotta (19 anni), Serafino Lascari (15 anni), Filippo Di Salvo (48 anni), tutti albanesi, Giuseppe Di Maggio (13 anni), Castrense Intravaia (18 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza La Fata (8 anni).