• 18 Dicembre 2024 18:42

Unire e/o dividere

DiCarlo Bellisai

Lug 4, 2023

L’essere umano è un mammifero prevalentemente sociale, abituato a vivere in famiglie, unite spesso in grandi branchi, per lo più stanziali, perfino in città e megalopoli. Addirittura senza pari fra i mammiferi: solo alcune specie di uccelli, di pesci e di insetti possono competere o superarlo per addensamento di popolazione.

Verrebbe quindi da pensare che siamo più propensi ad unire che a dividere. Probabilmente nella nostra eredità di specie è il primo dei due verbi a muoverci, tuttavia le cose possono complicarsi e, per l’equilibrio fra i contrasti, anche il secondo finisce con l’avere una sua estrema importanza.

Unire, dal latino, significa mettere insieme gli unus. Due unus è già unione: eccoli nel rapporto amoroso, nella coppia, nella relazione d’amicizia, negli incontri. Da due unus può nascere una famiglia di tre, quattro o più. Da due unus può nascere un gruppo che si accresce di nuove unità. Perché unire è un verbo che non ha limiti: ci si unisce al circolo scacchistico, alla scuola di canto corale, ci si unisce allo stadio, nel gruppetto della piazza, alla manifestazione sindacale, al concerto. Ma ci si può unire anche in un progetto, in un’associazione, in un movimento. Ci si unisce per interessi, per gusti, affinità, per intenti, rivendicazioni e progetti.

Unire è bello, ci dà delle buone sensazioni: di vicinanza, di complicità, di scoperta, di confronto, di conoscenza. Guardare gli altri occhi e cogliere comunanza nelle diversità. Soltanto l’unità d’intenti e di metodo può dare vera forza ad una lotta e renderla determinante. Cercare l’unità nelle diversità sta nei fondamenti della nonviolenza.

Ma attenzione alle trappole, non solo prettamente semantiche, perché unire talvolta può far rima con dividere, come ad esempio quando viene cercata e fomentata l’unione di un popolo contro un altro, allo scopo di scatenare guerre per il predominio, territoriale ed economico. Si unisce, in questo caso, per altro in modo fittizio, una nazione, ma solo per dividerla da un’altra, od altre. Per alimentare l’odio in grado di giustificare la guerra e i grandi affari delle industrie belliche. Allo stesso modo può succedere che un ramo di una famiglia, che sembrava unita, si divida su una questione di quote ereditarie, causando ricorsi legali o ritorsioni. Così come accade che attivisti che sono uniti dagli stessi obiettivi, si dividano per punti di vista discordanti e dilemmi comunicativi.

E’ peraltro ben noto come siano le divisioni interne ad un popolo la miglior garanzia per il suo dominio da parte di minoranze privilegiate. Ne segue che il sistema di potere stesso, mentre apparentemente inneggia all’unità del popolo, in realtà ne persegue e fomenta le divisioni, allo scopo di rendere innocue e controllabili le spinte al cambiamento. Niente di nuovo sotto il sole: riecheggia il romano “divide et impera”. Le divisioni fra i sudditi sono la prima garanzia della durata di un regime. E più il regime sarà forte e imperiale, maggiormente dovrà lavorare alla divisione fra i popoli sottomessi.

Dividere, sempre dal latino, è far più parti dall’uno. Ma, attenzione, non scambiamolo per condivivere, che è dividere assieme, quindi in modo partecipativo. Condividiamo il pane, mettiamo insieme il cibo, condividiamo le conoscenze, gli strumenti di lavoro. Condividere è eguale per tutti, mentre il solo dividere, in assenza del con, cioè di compartecipazione, può risultare drammaticamente diseguale. Così la divisione in classi sociali mantiene l’insieme della popolazione in perenne conflitto, la divisione di ruoli, aspettative ed opportunità in base al genere crea violenza, invisibile o palese, spesso assassina, in molti contesti e situazioni. La divisione può essere anche etnica, non necessariamente attraverso leggi razziali, o interventi draconiani, ma anche in modi più sinuosi: basta lasciar naufragare qualche barcone senza adeguato soccorso, o metter su reticolati, costruire muri: quel che si raccoglie è discriminazione, ghettizzazione, talvolta persino apartheid.

 

UNIRSI NELLE DIVERSITA’

Non voglio qui far l’elogio dell’unire. L’unire assoluto non ha senso: se non si sta bene insieme è meglio dividersi, provare altre unioni ed altre forme. Se l’unione indissolubile del matrimonio non se la passa bene, con una sempre più ampia percentuale di separazioni e divorzi, non va sostanzialmente meglio alle fluttuanti alleanze fra i partiti politici, costretti sempre più di frequente a cambiare programmi, nomi e leader. E che dire dell’unità fra i movimenti della società civile: pacifisti, ecologisti, disarmisti, antagonisti, gruppi di cambiamento sociale? Quando si cerca di unirsi tutti, mettendoci molta buona volontà di mediazione, sembra che sia già un successo e si possa andare. Ma ad una analisi più attenta appare come una casa costruita frettolosamente e con materiali diversi, in cui da subito s’intravvedono le crepe, avviso di prossimi crolli.

Così alla fine le persone, spesso frustrate nelle proprie aspettative, sono più propense a rimanere nel proprio unus e a non prodigare energie verso un unirsi gravido di rischi. E non partecipano, si mettono da parte, coltivano il proprio orticello, si distanziano, forse rinunciano. Con più facilità oggi, con internet, i social, la domotica, gli acquisti online: si può avere la tentazione di rifugiarsi in un mondo chiuso e sicuro, con poche, fragili certezze.

Ciò nonostante, la tensione ad unirsi si ripresenta, persiste, come un bisogno inappagato. Dobbiamo sapere che questa tensione è vitale, perché siamo mammiferi sociali. Perché se ancora, purtroppo, si può morire di fame, si crepa ancor più di solitudine e abbandono. La dimensione sociale dell’unirsi è, per l’essere umano, un bisogno essenziale.

La paura maggiormente percepita tra le persone è che unirsi significherebbe dover rinunciare a qualcosa del proprio unus. Questo è in parte vero, ma non deve essere enfatizzato, perché potrebbe trattarsi di rinunce parziali e non fondamentali. Uno dei problemi è infatti che dividersi per le differenze è molto più facile che unirsi per i principi comuni e per i comuni obiettivi.

Certi che non potremmo essere mai tutti con le identiche idee e sensibilità, se non in un mondo completamente robotizzato ed alienato, che non ci auguriamo, dovremmo essere capaci di discernere fra quel che ci accomuna e quel che può dividerci e, in base a questo, scegliere se andare insieme o meno. Se le differenze sono fondamentali, cioè intaccano i principi costituenti di un movimento, è molto meglio dividersi. Se, al contrario, si tratta di differenze di appartenenza ideologica, o di linguaggi usati, è assai più saggio provare a lavorare sulla comunicazione e cercare di unirsi, soprattutto se c’è un chiaro obiettivo condiviso.

Occorre abbandonare la paura che unirsi significhi rinunciare a una parte di se stessi, o del proprio gruppo, pensando piuttosto che significhi soprattutto arricchirsi, individualmente e collettivamente di contributi, perché sono proprio le diversità a dare colore, forma e azione ai movimenti di cambiamento che, per loro natura, sono eterogenei. E’ quindi importante che le diversità siano chiare, esplicite, ma che siano ottemperate dal principio e dall’obiettivo comune, al quale va dato il maggior risalto. Chi partecipa ha bisogno di sentirsi accolto, ma anche di avere un’idea chiara su cosa si vuole fare e proporre. Più si mette il cuore e la ragione insieme per unire, maggiori sono le possibilità che l’unirsi vada a buon fine e che le diversità non si trasformino presto in divisioni.

In quanto al dividere non c’è altro da mettere in campo, se non il condividere, prassi solidale, ma anche momento di sperimentazione di un progetto costruttivo.

 

Carlo Bellisai

 

(Ringraziamenti: Image by johnhain)

Di Carlo Bellisai

Sono nato e vivo in Sardegna. Mi occupo dai primi anni Novanta di nonviolenza, insegno alla scuola primaria, scrivo poesie e racconti per bambini e raccolgo storie d’anziani. Sono fra i promotori delle attività della Casa per la pace di Ghilarza e del Movimento Nonviolento Sardegna.