Pubblichiamo la seconda parte di questa interessante intervista.
Per rileggere la prima parte andare qui
A che cosa serve la violenza?
Nicola Corazzari: Chi la esercita non la percepisce negativamente, ha una sensazione di forza, di potenza.
Quando il bambino ha paura vive uno stato molto dispendioso energeticamente, di vigilanza, simile a ciò che noi ferraresi abbiamo conosciuto con il terremoto: hai avuto paura e temi di rivivere quell’esperienza, che però non puoi controllare. Non sai mai quando arriverà la prossima scossa.
Il bambino non sa perché viene sgridato, perché il padre o la madre sono nervosi, perciò non capisce quale atteggiamento tenere per evitare il richiamo o impedire la violenza tra i genitori. Si innesta un meccanismo per cui ad aver paura si sente debole, e risponde facendo paura.
Questo produce nuove vittime di violenza.
Certo. L’identificazione con l’aggressore porta il bambino a perpetuare il ciclo della violenza, deve però trovare un soggetto debole su cui scaricare.
Il ragazzino ripete l’aggressione con la madre, che tanto non lo abbandonerà. Col padre sarebbe pericoloso, lui così forte, autoritario.
Così sembra che il padre, violento, sia in grado di badare ai figli, e la madre no.
Spesso gli uomini che fanno violenza dicono: “Quando mio figlio è con me è tranquillissimo!” Certo! Un bambino che assiste a violenza non farà mai capricci con l’aggressore. Perciò è un agnellino col padre e un mostro con la madre.
Gloria Soavi: Molte persone, purtroppo, leggono questo meccanismo come conferma che l’uomo maltrattante può essere un buon padre. Questo è inquietante perché rinforza certi modelli. È vero che il bambino quando è insieme a lui si comporta bene, ma riceve un modello di insegnamento terribile.
C’è un comportamento femminile che genera nel figlio maschio un inclinazione alla violenza come modo di dominare le relazioni?
Sicuramente esiste un comportamento materno che all’estremo non aiuta, ed è quello del dare centralità al figlio. Specialmente ai figli maschi viene concesso tutto, non c’è confine. La relazione distorta con la madre si mescola ad un messaggio di genere, cioè il ragazzo tende a pensare che sta ricevendo tante attenzioni da lei non perché è sua madre ma perché è una donna!
Il rapporto con la madre e con il padre è un grande modello di apprendimento, e una relazione di sopraffazione dell’uomo sulla donna conferma nel figlio maschio l’idea che “a me si deve tutto”, “si fa ciò che dico io”. E poi c’è una conferma sociale. Ma ciò che fa la differenza, dal mio punto di vista, è come viene interiorizzato il modello dato dal rapporto tra i genitori.
E una bambina che assiste alla violenza che percorso interiore ha?
Nella maggior parte dei casi s’identifica con la vittima. È un bel problema, perché vuol dire che salvo incontri o esperienze correttivi, lei questa identificazione se la porterà dietro tutta la vita.
Oppure c’è un’identificazione duplice: la bambina si identifica con la vittima ma scatta in lei l’istinto di protezione, si sente responsabile per la mamma, si preoccupa di come sta. È un modello migliore del precedente, ma bisogna pensare che questi ruoli di protezione li assumono bimbe di 7-8 anni che in questa maniera si giocano l’infanzia. Questi ruoli sono molto pesanti emotivamente da interpretare.
In qualche percentuale, poi, anche le ragazze si identificano con l’aggressore e agiscono in maniera violenta, soprattutto esternamente alla famiglia. In generale, però, le donne tendono a rivolgere la loro aggressività contro se stesse, gli uomini invece contro gli altri.
Nicola Corazzari: C’è anche un aspetto di identificazione con la propria genitalità: uomini sporgenza, donne corpo cavo. Uomini predisposti a irrompere nella realtà, donne predisposte a contenere le emozioni.
Gloria Soavi: A me ‘sta storia dell’invidia del pene fa incazzare parecchio. Può essere vero per certi versi ma non spiega perché, allora, esistono maschi che le emozioni le sanno esprimere. Veramente decisivo è che papà e che mamma hai avuto. Perché c’è una fusione di maschile e femminile in ognuno di noi.
Perciò si può rimediare.
Gloria Soavi: Le relazioni violente si possono curare. Non è una speranza, è una verità, per quanto complicato sia riuscirci. I cambiamenti ci sono, e anche nei maschi.
Una cosa importante che ora si sta rinforzando è l’idea che non solo bisogna riparare i meccanismi della violenza tra i partner, ma anche i rapporti tra questi e i loro figli, che spesso sono stati ignorati.
Ho conosciuto mamme che avevano subito maltrattamenti dai partner e che per un certo periodo, dopo avere interrotto la relazione di coppia, diventavano violente coi bambini, come se tutta la tensione accumulata dovesse in qualche modo venir fuori.
Gloria Soavi: Penso che il disorientamento e a volte la violenza di queste mamme sia una conseguenza del trauma. Non si può pretendere che una persona che ha vissuto una situazione così stressante possa avere subito la capacità di mettersi in una relazione empatica con i figli. Queste mamme vanno molto aiutate.
Aiutare le donne a riconoscere la violenza del partner è di per sé sufficiente a ridare forza al rapporto con i figli?
Gloria Soavi: No. Quantomeno non è automatico. Quando la violenza si interrompe i bambini hanno grandi aspettative, chiedono di più, e non accettano che la madre non sia pronta e in sintonia con loro. Rischiano, queste donne, di essere stigmatizzate. Bisogna invece riconoscere i limiti di una persona che esce dalla violenza e aiutarla.