L’attacco terroristico di mercoledì scorso a Londra nella zona di Westminster, davanti alla sede del parlamento inglese, ha provocato 5 morti e una cinquantina di feriti. C’è poi un’altra ferita, che sta diventando sempre più difficile da rimarginare, ed è quella che davvero il terrorismo islamista firmato Isis si propone di infliggere, spesso riuscendoci con un colpevole aiuto delle cancellerie occidentali. Si tratta del perpetuarsi della logica del “noi contro loro”.
Un filo conduttore, che all’indomani di ogni attacco di questa natura, accompagna interventi e prese di posizione da più parti, facendo politicamente leva su una contrapposizione tra mondo libero, dovecome ha ribadito la premier britannica Theresa May regnano valori di “democrazia”, “libertà di parola”, “diritti umani” e “stato di diritto” e un mondo che tale non è. Nella sua dichiarazione al parlamento, il primo ministro inglese ha infatti dichiarato: “Questo è un attacco alle persone libere, in ogni dove”, aggiungendo infine che la “migliore risposta al terrorismo” sono “i milioni atti di normalità”, “una risposta che nega ai nostri nemici la vittoria”. C’è dunque un “noi” contro “loro”.
Questa logica tuttavia mostra segni di cedimento ogni qual volta emerge che l’attentatore, come in questo caso, sulla carta, appartiene al “noi”. Dalle indagini è infatti emerso che l’uomo è nato in Gran Bretagna. Ed è presumibilmente dentro a questo “noi” che costui ha trovato motivo e spazio di radicalizzazione.
L’attentatore Khalid Masood, che gli inquirenti ritengono abbia agito in solitudine sebbene il gesto sia stato rivendicato dall’Isis, è rimasto ucciso mentre tentava di irrompere nella sede del Parlamento della capitale britannica, città dove il livello di allerta per la sicurezza dallo scorso mese era già salito a livelli mai così alti dai tempi dell’Ira. E lo ha fatto armato di un coltello. E armato di un pensiero perverso, probabilmente. Sulla prima arma, i servizi di sicurezza hanno dimostrato di poter intervenire tempestivamente contenendo il danno, aiutati dal fatto che l’uomo stesse agendo in solitudine. Sulla seconda arma, certo l’MI5 non può fare granché, a cui peraltro – stando a quanto riferito al parlamento – il soggetto era già noto per un passato di radicalismo. Possono invece fare molto le parole della politica, le idee, i desti quotidiani, il dialogo. In un mondo globale dove i confini identitari, oltre che quelli geografici, sono come spugne, la contaminazione reciproca ha tante chance di essere positiva quanto negativa.
Con la stessa intensità che caratterizza la difesa dei valori di democrazia e libertà sostenuti in chiave neoliberale, riprendono vita dichiarazioni e campagne digitali che vedono musulmani da ogni dove prendere le distanze con slogan quali “questo non è islam” e “Not in My Name” (non in mio nome). L’utilizzo dell’hashtag #notinmyname in opposizione alle violenze perpetrate da gruppi di matrice islamista nasce proprio a Londra, nel 2014, ad opera di un gruppo di giovani musulmani britannici. Tale campagna si rivitalizza all’indomani di quasi ogni atto terroristico di questo genere e va ben oltre i confini britannici e della rete. Nel novembre del 2015, a seguito della strage del Bataclan a Parigi, la campagna arrivò sotto forma di rally anche nelle piazze italiane, con centinaia di giovani musulmani d’Italia che si sono radunati in piazza a Roma per manifestare contro il terrorismo. Se la buona fede di tali iniziative non è in dubbio, sarebbe però utile conoscere e discutere le ragioni che hanno portato i giovani britannici ad esprimere parte della propria identità attraverso questi atti di dissociazione.
A seguito degli attentati dell’11 Settembre 2001 a New York e del 7 luglio 2005 a Londra, il dibattito politico sull’identità dei giovani musulmani si è intensificato, portando negli ultimi anni in Gran Bretagna anche all’approvazione di un pacchetto di misure conosciute come “Prevent”. Oltre a misure di sicurezza di contrasto al terrorismo, il documento ha prodotto una serie di azioni da compiere a livello molto pratico per prevenire la radicalizzazione nei giovani. Un esempio: gli insegnanti e i docenti, dalle scuole elementari fino alle università, svolgono corsi per imparare a captare segnali di radicalizzazione, con il dovere di segnalarli poi ai servizi di sicurezza.
L’utilità di queste misure è stata messa in discussione da numerose ong e organizzazioni internazionalie da diversi studi. La principale critica avanzata è di avere come effetto collaterale il fatto di favorire processi di etichettamento di alcune minoranze. In particolare, il processo che rischia di fomentare è quello di etichettamento delle comunità di giovani musulmani come comunità “pericolose” per la sicurezza nazionale. In una certa misura, il fenomeno #notinmyname può essere letto come l’interiorizzazione, un’accettazione quasi inconscia, di queste persone e comunità di rappresentare effettivamente un pericolo.
Per quanto frammentate siano le vite contemporanee, il bisogno di appartenenza resta una costante dell’essere umano. La risibilità delle armi e delle tattiche utilizzate in casi come quello di questa settimana a Londra, sposta piuttosto l’attenzione sulla ricostruzione dei percorsi di vita di questi soggetti, che da Bruxelles a Nizza, passando prima ancora per Parigi, ci dicono una cosa tanto banale quanto fondamentale da cui si può far partire una riflessione costruttiva e la ricerca di possibili rimedi: in queste vite ci sono aspetti di marginalità sociale, accompagnati spesso da storie di microcriminalità e radicalizzazioni che si presentano come improvvise o comunque non fondante su un passato di fede praticata.
Dentro queste marginalità l’Isis attecchisce, sfruttando i media e gli strumenti della globalizzazione. Al di fuori dei territori del sedicente Califfato tra Siria e Iraq, dove le coalizioni multilaterali stanno combattendo l’Isis sul campo, questo gruppo terroristico ha dimostrato di fare buon uso degli strumenti messi a disposizione dalla globalizzazione, offrendo percorsi di radicalizzazione su misura e fai-da-te, attuabili a casa comodamente davanti al pc e mettendo di fatto a disposizione di una moltitudine di soggetti a qualsiasi latitudine un “brand” utilizzabile all’occorrenza e ponendosi come un’alternativa alle ingiustizie della propria comunità. Tale propaganda fa anche curiosamente uso diconcetti e modalità riconducibili ad una certa cultura pop occidentale, come l’utilizzo di messaggi presi in prestito dal personaggio di Tony Montana, il protagonista di Scarface.
Perpetuare dunque una difesa a spada tratta dell’Occidente e dei suoi valori universali e riproporre un messaggio di “noi contro loro” su cui si è fondata la cosiddetta guerra al terrorismo inaugurata da G.W. Bush con gli interventi in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003, sono strade che finora non hanno prodotto i frutti sperati.
Continuare a prestare il fianco, da più parti e più o meno consapevolmente, a questo messaggio fattodi contrapposizioni, di intolleranza e di maldestri tentativi di appiattire le diversità non sta contribuendo a sconfiggere quel nemico. Sta invece riflettendo un freudiano esercizio di collocazione con la mente del problema al di fuori di noi. Che può funzionare, fino a quando il problema non lo ritroviamo sotto forma di violenze nelle strade delle nostre città, per di più perpetrate da nostri concittadini.
Abir Soleiman
(articolo originale pubblicato su We Generation, concesso gentilmente dall’Autrice ad Azione nonviolenta http://www.wegen.it/2017/03/27/attentatolondra-quella-ferita-sempre-piu-difficile-da-rimarginare/ )