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Vulnerabilità, violenza, guerra

Diadmin

Feb 13, 2023

in colloquio con Orsetta Giolo, filosofa del diritto, Università di Ferrara

Da tempo parli e scrivi di vulnerabilità. In un recente incontro l’hai messa in relazione alla guerra. Vorrei porti qualche domanda facendomi aiutare da Capitini.

Se ho ben inteso vulnerabili sono dette per lo più le persone ferite o più esposte a ogni genere di ferita. Non adopera questo termine Capitini, ma le ha ben presenti. Le vuole pienamente partecipi alla “comunità aperta”. Neppure i morti ne sono esclusi. Ne “La compresenza dei morti e dei viventi” le trovo indicate con sessantacinque appellativi diversi, Me n’è sfuggito, certo, qualcuno. I tuoi particolarmente vulnerabili come li indichi?

In verità, la categoria dei “soggetti vulnerabili”, così in voga di questi tempi, è assai problematica Sulle sue criticità la dottrina filosofico-giuridica si è a lungo soffermata, poiché distinguendo tra soggetti vulnerabili e non – o definendo le “gerarchie della vulnerabilità” – si finisce per restringere di fatto il campo di applicazione dei diritti solamente ad alcune persone (i “più” vulnerabili), non apparendo possibile (per costi, carenza di risorse, o altro) garantire la loro applicazione a tutte e tutti (basti ricordare le recenti “selezioni” negli sbarchi dei/lle migranti dalle navi delle ONG impegnate nei soccorsi in mare).

Nella guerra, a ben vedere, la categoria dei soggetti vulnerabili disvela ulteriori sue peculiarità. Qualificare un soggetto come vulnerabile significa indicare la sua fragilità specifica, ma al contempo significa implicitamente ritenere che esistano dei parametri di comparazione: si è vulnerabili rispetto ad altri soggetti, che non lo sono. Ma soggetti non vulnerabili sono difficilmente rinvenibili nella realtà. Dunque, se non esistono soggetti non vulnerabili, significa che la categoria dei soggetti vulnerabili potenzialmente indica altro: ovvero indica che vi sono alcuni soggetti che si trovano in una condizione di potere, i soggetti dominanti, che sono anche in grado di usare violenza contro chi dominante non è, non in quanto (più o meno) vulnerabile, ma poiché posto in una condizione di vulnerabilità.

I soggetti vulnerabili sono cioè le persone più esposte alla ferita in quanto in balia del potere altrui, un potere perlopiù fuori controllo. La guerra, allora, appare il contesto paradigmatico in cui la dinamica vulnerabilità/dominio si disvela nella sua drammaticità e plasticità.

In un senso più generale vulnerabili siamo tutti, perché sottoposti al dominio irresistibile di potenze che ci trascendono. Questo in guerra è chiarissimo. Nessuno è invulnerabile: persino Achille ha il suo tallone. Nel suo ultimo scritto Capitini annota: “L’individuo si trova in gruppi di condizionamenti, che per semplificazione abbiamo ridotto a tre: lo Stato, l’Impresa, la Natura”. Ti ritrovi in questa sintetica formulazione?

Questa concezione della vulnerabilità come condizione universale – siamo tutte e tutti vulnerabili, nessuno/a escluso – è alle origini della filosofia politica e giuridica della modernità.

Recuperare questa riflessione originaria permette di interrogarci in merito alle ragioni del ritorno della nozione di vulnerabilità nel discorso giuridico e politico contemporaneo, ritorno che sembra dettato dalla necessità di indicare la condizione in cui i poteri non sono più ben visibili (o sono tornati ad essere invisibili), non sono più limitati, né sono sottoposti al controllo del diritto. I poteri odierni (nuovi, pubblici e privati, selvaggi, disinibiti, di fatto, criminali e così via, come ha scritto di recente Maria Rosaria Ferrarese) sembrano avere riconquistato una maggiore capacità di incidere in modo pervasivo e violento (se non autoritario) sulla vita degli individui, esposti – per le più diverse ragioni – all’inesorabilità della loro “soverchiante precarietà giuridica e sociale”, sostiene Didier Fassin.

La vulnerabilità, in quest’ottica, paradossalmente ci segnala non un avanzamento nella tutela dei diritti, quanto piuttosto una regressione in corso, dunque la necessità di ricorrere a parole che diano conto di questa fragilità diffusa, di questa esposizione dell’inerme al potere e alla violenza, in assenza di controlli, limiti chiari, definiti e rigorosi all’esercizio del potere, appunto, e della violenza ad esso connesso.

Perché i poteri che ci sovrastano possano essere trasformati e non continuino a limitare e minacciare le nostre possibilità di sviluppo, la nostra libertà, la nostra stessa esistenza occorre, per Capitini, diffusione e approfondimento della nonviolenza. “Il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento”. Mi pare che nel tuo intervento tu pervenga a una formulazione analoga.

La potenzialità della riflessione sulla vulnerabilità va nel senso della contestazione della violenza quale paradigma di riferimento del diritto e della politica. La violenza infatti nel pensiero moderno, scrive Olivia Guaraldo, “invade il politico e ne satura il senso”. Porre il fatto della vulnerabilità (anziché il fatto della violenza/forza) alla base delle istituzioni e del diritto significa al contrario de-mistificare la violenza e affermare in modo netto la necessità della messa al bando della guerra (espressione massima del dominio, tramite l’uccisione di massa).

Se assumiamo il fatto della vulnerabilità, se lo prendiamo sul serio, non vi può essere altra opzione che quella del ripudio incondizionato della guerra. Diviene infatti inaccettabile quell’atteggiamento tutto sommato ambivalente che il diritto ancora mantiene nei confronti della stessa, in una sorta o di generalizzata “rassegnazione” alla sua ineluttabilità o di esaltazione dell’evento bellico quale “evento/motore” della storia e della politica.

Sulla “guerra come negazione del diritto”, oltre che della morale e della politica (in quanto inflizione “di sofferenze indicibili a chi non ha ragioni per subirle da parte di chi non ha ragioni per infliggerle”), scriveva già alcuni anni fa Letizia Gianformaggio.

Infine, nel tentativo, che in tuoi scritti indichi, di superare la concezione che “intende la violenza/forza quale elemento necessario e costitutivo delle istituzioni, del diritto e della politica”, può essere di qualche interesse questa annotazione di Capitini: “Accettare una legge, per convinzione della sua utilità per la convivenza umana, e quindi della sua ragionevolezza, non vuol dire collaborare alla costrizione di cui la legge sia armata… Non fa certo una buona impressione quel vedere la legge sempre accompagnata da una minaccia”?.

Qui c’è di mezzo il nesso (costitutivo, secondo molti) tra diritto e forza. L’avvento dei diritti, dalla seconda metà del Novecento in poi, ha impresso una trasformazione importante nel modo di intendere l’essenza del diritto stesso. Le Costituzioni del Secondo dopoguerra e la normativa internazionale, adottata a partire dalla Dichiarazione Universale del 1948, hanno avviato un processo di “minimizzazione” della forza, scrive Luigi Ferrajoli, il quale arriva a proporre, con grande lungimiranza, il bando universale delle armi in quanto beni illeciti perché micidiali. Non è casuale, allora, il fatto che stiamo invece ora affrontando un processo inverso, di de-costituzionalizzazione e di smantellamento del sistema di diritto internazionale a favore della costruzione di uno spazio giuridico globale nel quale il ritorno della violenza nella gestione delle relazioni – internazionali, private, economiche – è sotto gli occhi di tutte e tutti. Lo smantellamento in corso del sistema giuridico e politico fondato sui diritti appare del tutto funzionale all’affermazione di un ordine globale neoliberale che riconosce nella sopraffazione, nell’espropriazione e nell’accumulazione violenta di capitale la propria ragion d’essere.

P.S. Particolarmente vulnerati e ulteriormente vulnerabili in Capitini 

Ammalati, anonimi, annullati, chi meno ha, chi meno è, chi non ha, chi non è, chiusi, ciechi, colpiti, colpiti dal mondo, consumati, consunti, corpi morti, crocifissi, deboli, deformi, dementi, dileguanti, dimezzati, diminuiti, disfatti, disperati, dispersi (nel tutto o nel nulla), dissolti, distrutti, ebeti, emarginati, esangui. esauriti, esclusi, falliti, fatti a pezzi, fiaccati, fragili, gementi, gobbi, gracili, gracilissimi, immobilizzati, impediti, inerti, inetti, infermi, infimi, insufficienti (relativi e assoluti: morti), irragionevoli, languenti, limitati, lontani, malati, mal ridotti, mezzo dentro la fossa, minimi, miseri, morenti, morti, non attivi, pallidi, pazzi, periferici, poveri, presi, rattrappiti, ridotti a un’ombra, rimasti con voce afona, scadenti, scansati, schiavi, scomparsi, sconfitti, sfiniti, soccombenti, sofferenti, sopraffatti, sordomuti, stanchi, stolti, stroncati, stupidi, trascurabili, ultimi, vecchi, vittime, zoppi.

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